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Era il gennaio del 1963 quando un ragazzo che frequentava i locali del jazz & blues revival londinese sentì annunciare al cantante di una oscura rhythm’n’blues band che si esibiva all’Ealing Club di West London: “Stiamo cercando un’altra persona per dividere un appartamento a Chelsea. Chiunque sia interessato ce lo faccia sapere, l’affitto è di quattro sterline a settimana”. Il ragazzo era James Phelge. Il cantante, Mick Jagger. Dato che Phelge abitava già in un bell’appartamento, si deve allo spirito avventuroso dei Sixties (“Chelsea mi sembrava alla moda”) l’inizio di una straordinaria avventura, durata circa un anno, che portò uno di noi comuni mortali a condividere non solo l’affitto dell’appartamento al secondo piano del numero 102 di Edith Grove a Chelsea, ma l’anno forse più cruciale nella vita degli Stones, quello che li vide passare da musicisti supersquattrinati, respinti tanto dal mainstream quanto tenuti ai margini, con sussiego, di quella blues, troppo purista per apprezzarli, a star della nuova ondata, secondi solo ai Beatles e unici in grado di tenergli testa.
Il libro di Phelge è ottimamente scritto (e ottimamente tradotto: bravi Paolo Bassotti e Marco Lascialfari) e la sua lettura è forse uno dei modi migliori per celebrare il cinquantenario della band che a lunghissimo ha tenuto lo scettro di re del rock’n’roll. Il fascino di Io e gli Stones è composito, dato sia dagli aneddoti sugli inizi della band e degli altri personaggi che popolavano la scena musicale inglese in quel fatidico 1963 sia dallo spaccato di vita ordinaria di quattro aspiranti teppistelli londinesi: Phelge, Jagger e gli altri due inquilini di Edith Grove, ovvero Brian Jones e Keith Richards. Anzi, nonostante nel racconto di Phelge vengano alla luce le origini di Eric Clapton, all’epoca un mod fan degli Stones, salito pure un paio di volte sul palco a cantare – e non a suonare la chitarra – con il gruppo, o di Rod Stewart, il fascino maggiore del racconto a mio avviso deriva proprio dalla descrizione della ordinary life nella grigia Londra del 1963, in mezzo alla fame e alla sporcizia del proprio appartamento trascurato, in giornate in cui uno scherzo, anche di cattivo gusto, era qualcosa che faceva sentire vivi. Proprio in quei giorni, conclude Phelge, si gettarono forse le radici della divisione di Brian da Mick e Keith, dovuta alla scelta di stare in stanza da solo: in questo modo, “Brian rinunciò alla parte più intima e profonda di quell’amicizia che si sviluppò in seguito. Quelli che condividevano una camera si ritrovavano a parlare fra loro a qualsiasi ora del giorno e della notte […] e ciò contribuiva a rendere più intima l’amicizia. Rinunciando a tutto questo, Brian creò un divario fra sé e gli altri; era come se, in un certo senso, fosse sempre mancato un piccolo tassello nel rapporto fra lui e Mick e Keith”.
Alla fine, questo è il punto cruciale di questo libro: la verità umana, sincera e appassionata, sull’intimità della vita di sei ragazzi (sette con Phelge, e nonostante Bill Wyman, Charlie Watts e Ian Stewart rimangano in secondo piano) che il successo, in fondo, non ha cambiato poi tanto. Consigliatissimo. Brava Arcana per la scelta di pubblicare questo libro in Italia.
Articolo del
31/08/2012 -
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