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Facciamo un gioco: andiamo su www.hitparadeitalia.it e apriamo una delle classifiche annuali di vendite degli album, ad esempio quella del 1968. Troviamo in Top Ten tre album di canzone d’autore (due di De André, uno di Jannacci), sei di pop melodico (ma di cui due di Mina, uno di Patty Pravo, uno di Morandi - il suo migliore, quel Gianni Quattro che contiene Un mondo d’amore e C’era un ragazzo...: il peggio sono Dalida e i Bee Gees, e ho detto tutto) e uno di canzoni per bambini (la compilation dello Zecchino d’Oro): non male, tutta roba di classe, a parte forse Dalida (perdonate, non l’ho mai sopportata) e lo Zecchino. Dai, poi, 1973: due supercapolavori di Lucio Battisti, Pink Floyd, Elton John, i Pooh progressive di Parsifal, Mina, Patty Pravo, Ornella Vanoni, Claudio Baglioni e Gabriella Ferri. Anche qui, niente male. Avanti, 1980: Dalla, Battisti, Bennato, De Gregori, un Renato Zero ancora passabile, Pink Floyd, Police, Bob Marley, una Mina che cominciava solo allora a essere bollita, e il supermelodico Julio Iglesias, l’unico inascoltabile. Ora prendete la classifica annuale del 2009, l’ultima pubblicata: Tiziano Ferro, Laura Pausini, Eros Ramazzotti, Renato Zero (bollitissimo), Giusy Ferreri, un’antologia di Michael Jackson, Gianna Nannini (bollitissima), Alessandra Amoroso. Di ascoltabili solo la colonna sonora di Mamma mia, pur storcendo il naso (non sono gli originali degli Abba) e gli U2 (per quanto bolliti anch’essi). La differenza con i primi tre anni presi a caso sta nel fatto che oggi c’è solo brutta musica in testa alle classifiche, per quanto poco contino, viste le vendite: la situazione non sarebbe stata migliore se però avessi citato i dati di Music Control, la classifica dei passaggi radio. Anzi, sarebbe stata peggiore. Da anni passano in radio solo ed esclusivamente i soliti noti, quelli che avete letto nella classifica del 2009 e qualche altro (Elisa, Vasco, Liga, Jova), col risultato che chi è di palati più fini si orienta su radio tematiche od on line e la massa neppure viene a conoscenza dell’esistenza degli equivalenti, nel senso della capacità di fare musica non scontata (il tempo giudicherà le grandezze artistiche), dei nuovi Battisti, Dalla, De Gregori, Bennato, De Andrè, Pink Floyd, Police, ecc.
È anche di questo che parla il pamphlet O casta musica del bravo musicista progressive Fabio Zuffanti. Se state dicendo “chiiiiiiii?”, gli avete già dato ragione, dato che è attivissimo in una dozzina di progetti, s’è ritagliato una nicchia di mercato che gli permette di vivere di musica, è noto soprattutto all’estero e voi, appunto, non lo conoscete. Il punto è che non potete conoscere lui né altri che vendono molto di più in Italia, perché non passano sui grandi media. Un esempio? Il 14 maggio 1972, sulla Rai, a “Teatro 10”, il tv show di prima serata, c’erano Astor Piazzolla, il balletto moderno di Felix Blaska, la regina del fado Amalia Rodriguez, i Delirium di Ivano Fossati e la Premiata Forneria Marconi. Ora immaginate la Rai che vi propone stasera Gotan Project, Rachid Ouramdane, Marisa dos Reis Nunes, Offlaga Disco Pax e Baustelle. Fantascienza, no?
Nato dalla classica goccia che fa traboccare il vaso, ovvero aver sentito durante la spesa al supermercato uno di seguito all’altro ben tre pezzi di Elisa (caro Fabio, a me da Media World è toccato il supplizio di un intero album di Tiziano Ferro, e tutte lagne, neanche un pezzo mosso), il libro è l’espansione della lettera aperta che in quell’occasione Zuffanti scrisse e inviò a diverse redazioni, cartacee e on line. Dalla prima pubblicazione si scatenò un’onda lunga, tanto che ne parlarono perfino La Stampa e La Repubblica. Ora Zuffanti ha sviluppato i temi e le domande presenti nella sua lettera e ci ha fatto un libro, che passa in rassegna tutti gli aspetti del problema musica in Italia: il modo in cui è visto il mestiere del musicista, l’essere condannati a non poter essere ascoltati se non si è preselezionati in quella fascia definita di “solo grandi successi”, la preclusione totale delle radio verso molti generi, il coraggio perduto di discografici e programmatori radiotelevisivi, ma anche dei musicisti (Zuffanti cita il caso di Battisti che all’apice del successo se ne venne fuori con un disco “difficile” come Anima latina e che vendette comunque 250.000 copie, operazione impensabile per un Ligabue o un Jovanotti), la mancanza di curiosità musicale in cui oggi si viene allevato fin da piccoli e che porta al proliferare i cloni di cantanti mediocri come Giorgia (grande voce, ma non educata, e brutto repertorio), incoraggiati da scuole di musica e talent show, la presenza di una indie-casta fatta di musicisti spinti da giornalisti amici (Fabio, hai ragione: e un bel tacer non fu mai scritto). Il libro è completato da interessanti interviste a personaggi come Stefano Isidoro Bianchi (Blow Up), Eugenio Finardi, Tommaso La Branca, Giancarlo Onorato e altri.
Zuffanti definisce il suo un libro ingenuo, perché si pone ingenuamente domande cui tutti danno ormai risposte rassegnate. E lo è, ma al tempo stesso dà voce a quello che tanti pensano: perciò il suo valore è forte, perché gridare “il re è nudo” è da sempre una delle forme più efficaci per destabilizzare una situazione e dar coraggio a chi dissente. Ed è un libro ingenuo perché non tiene conto, ma forse volutamente, che la banalizzazione di ogni prodotto, da quello alimentare a quelli culturali, è una tendenza profonda del capitalismo globalizzato delle multinazionali, come ha mirabilmente insegnato Debord nel suo La società dello spettacolo: permette all’industria di vendere merci più facili da produrre (e quindi con meno spese) in eterno, con un semplice restyling della confezione. Quanto questo impoverimento della biodiversità sia pericoloso per l’esistenza stessa della vita sulla Terra, è evidente a tutti: sarebbe ora di preoccuparsi anche dell’impoverimento del nostro cervello e della decadenza della nostra società, conseguenza dell’impoverimento della stessa nostra cultura, regredita a livelli meno che basilari e incapace quindi di progettare un qualsivoglia slancio positivo verso il futuro. In definitiva, un volume importante, contro la casta che sta uccidendo la musica e che dovrebbe diventare il libretto rosso di chi è profondamente scontento dell’attuale mondo della musica.
Articolo del
02/10/2012 -
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