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C’è stata un’epoca del rock, quella a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70, in cui il live album era una mossa obbligata, un appuntamento da non mancare, una prova suprema per qualsiasi artista ci tenesse a essere definito tale. E paradossalmente quest’epoca è la stessa in cui si comincia a sperimentare l’uso della sala di registrazione come strumento (Phil Spector, i Beatles, perfino il Jimi Hendrix di "...And the Gods Made Love"). Ma le forme musicali in essa prevalenti, il rock blues, la psichedelia, l’incipiente progressive avevano tutte il minimo comun denominatore della parentela o dell’influenza con il jazz, che da sempre ha fatto della performance estemporanea il momento creativo per eccellenza, superiore a quello della composizione e della registrazione. Così i live rock del periodo vedono spesso la mutazione dei brani registrati in studio, che si allungano, si estendono, perfino si trasformano nell’apoteosi del momento solista che vede come strumenti principe la chitarra e in second’ ordine la batteria e le tastiere tutte. Come chiariscono nell’introduzione Claudio Gargano e Antonio Iannetti, che ha collaborato alla stesura di diverse schede, l’industria musicale fiuta il business e trasforma in dischi la frenetica attività live dei propri artisti, cosicché per l’ascoltatore dell’epoca comprarsi un live non equivaleva affatto a portarsi a casa un Greatest hits, ma un disco nuovo, a volte per gli arrangiamenti differenti dei pezzi, a volte per la trasformazione su accennata, a volte perfino perché composti di inediti, parzialmente o in toto.
Questo aspetto, oggi pressoché scomparso, della musica rock, prigioniera del marketing fino all’immutabilità dell’arrangiamento deciso in studio, per cui il live diventa il banco di prova per cui un artista sa suonare se riproduce fedelmente quanto si ascolta su disco, regalando in più il calore dell’esecuzione live, merita considerazione e la meritano anche i numerosi dischi gioiello usciti nei dieci anni a cavallo tra 1969 e 1979 (gli album usciti dopo qui recensiti sono in realtà stati registrati comunque in quel periodo). il criterio scelto da Gargano e Iannetti è essenziale: breve presentazione della carriera dell’artista, illustrazione delle modalità in cui è nato il disco live preso in esame, sua disamina brano per brano, capitolo finale di “Freak & Curios”, talora molto sfizioso, talaltra meno. Il libro presenta davvero pochi errori (ne ho contati solo cinque: la foto di p. 20 non può essere del 1972, quando i Cream si erano già sciolti, e quella di p. 48 è più tarda; “Würm” degli Yes non presenta affatto la ripresa del tema principale di “Starship Troopers” né nella versione live di “Yessongs” né altrove; definire “Carry On” di CSN un brano in possesso di una melodia allegra è piuttosto opinabile, visto che 1. la melodia è costruita su una pentatonica minore 2. ogni sua frase si chiude con una scala discendente; la descrizione dell’organizzazione sonora dei Doors a p. 169 è confusa ed errata, dato che gli assolo toccavano sia alle tastiere che alla chitarra).
Per il resto tutto ok: il volume presenta esclusivamente live appartenenti ai generi citati in apertura (nessuna traccia dei due live anni 70 di Bowie, ad esempio, che presentano versioni dei brani piuttosto differenti da quelle in studio, ma non a causa dell’improvvisazione), ma lo fa molto bene, accendendo il desiderio di recuperare vinili che stanno facendo la polvere o di sentire per la prima volta capolavori colpevolmente trascurati. Bene così.
Articolo del
07/02/2013 -
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