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C’era molta attesa, tra i fans battistiani, per l’uscita di questo memoir di Pietruccio Montalbetti, leader dei Dik Dik (per i pischelli: storica band del beat italiano, le cui versioni di hit epocali dei tardi anni 60, come Sognando la California e Senza luce, sono entrate nella memoria collettiva italiana), uno dei pochi veri e intimi amici di Lucio Battisti, uno che lo ha conosciuto agli inizi della sua avventura milanese, gli è stato vicino, lo ha aiutato, umanamente e professionalmente, ad ambientarsi nella metropoli lombarda e a farsi strada nell’ambiente musicale. Uno che, dopo un raffreddamento dei rapporti durato qualche anno, gli è stato vicino fino quasi alla fine.
Tanta autorevolezza, invece, alla fine, delude, anche se solo parzialmente. E delude soprattutto forse per le aspettative che si riponevano nel libro. Intendiamoci: la verità umana, indubitabilmente, c’è. Ma sono il modo in cui è raccontata e gli errori marchiani di cui questo racconto è costellato a deludere. Comincerò dai motivi di delusione. A p. 18 Montalbetti, in un dialogo con Battisti datato 1964, afferma di aver sentito la sera precedente per la prima su Radio Luxembourg un nuovo gruppo: i Beatles con Love Me Do. Che però è del 1962. O l’autore si spiega male o fa un errore colossale. Sempre p. 18: nello stesso dialogo Montalbetti suggerisce a Battisti di ascoltare Dylan, che ha appena scoperto tramite la versione dei Byrds di Mr. Tambourine Man: ma quella canzone, sia nella versione dei Byrds che in quella di Dylan, esce nel 1965, che è pure l’anno di esordio della band californiana. A p. 44, Montalbetti asserisce di essere stato chiamato da Fellini a Roma per arrangiare il brano Belfagor dalla colonna sonora di Giulietta degli spiriti, occasione in cui avrebbe incontrato il compositore Stelvio Cipriani che gli avrebbe fatto ascoltare il brano. Alloggiato all’Hotel Parco dei Principi, avrebbe intravisto George Harrison, anch’esso ospite dello stesso albergo (p. 46). Tutto questo non può essere, per il semplice motivo che Giulietta degli spiriti è un film del 1965 e prima del 1966 i Dik Dik non pubblicano nulla, quindi non li conosce nessuno e sono in bolletta cronica: che ci avrebbe fatto quindi Montalbetti al Parco dei Principi, in quel 1965 in cui i Beatles vi hanno alloggiato per il loro tour italiano? Altre incongruenze: Cipriani non risulta abbia mai lavorato per Fellini, la musica di Giulietta degli spiriti è di Nino Rota, il 45 giri con Belfagor in versione beat uscì firmato dai poco noti Minstrels. Per quale motivo Fellini dovrebbe aver preferito i Minstrels ai Dik Dik? Mah! A p. 47 Montalbetti afferma di aver incrociato i Beatles anche a St. Moritz (nel 1966, da quanto si capisce) e di aver alloggiato nelle loro stanze, ancora da rifare. Ma i Beatles a St. Moritz non ci sono mai stati tutti insieme: ci sono stati solo i Lennon (John & Cynthia) accompagnati dal produttore George Martin e consorte. E ci sono stati nel 1965 (quando i Dik Dik erano degli emeriti sconosciuti). Ah, per verificare mi sono bastati 30 secondi su Google: “Beatles St. Moritz”. A p. 101 scopriamo che nella seconda metà degli anni 60 sarebbe ancora andata in onda la trasmissione tv Il musichiere, la cui ultima puntata è invece andata in onda il 7 maggio 1960. A p. 211 si rievoca il duetto di Battisti con Mina a Canzonissima: peccato che fosse a Teatro 10 (ci ha scritto qualche anno fa un intero libro, molto bello e documentato, Enrico Casarini). L’apoteosi è però a p. 143, dove, dopo aver raccontato delle doviziose confidenze ricevute da Lucio nel 1966, Montalbetti afferma di essersele ricordate solo perché impresse casualmente su una cassetta. In quell’occasione il registratore si sarebbe rotto. Ritrovato casualmente decenni dopo, avrebbe ripreso a funzionare, facendo riascoltare a uno stupitissimo Montalbetti la voce di Lucio. Purtroppo però, al termine, il nastro si sarebbe irrimediabilmente rotto e rovinato. Sarà, ma io non ci credo che un buon laboratorio specializzato non avrebbe potuto restaurare lo sfortunato nastro che conteneva un simile reperto storico, di valore enorme. Per la cronaca, il registratore era acceso perché Montalbetti e Battisti, in una bella giornata del 1966 stavano ascoltandosi i Jefferson Airplane, il cui primo disco, però, esce proprio a settembre 1966: conoscendo la difficoltà a reperire dischi stranieri in Italia fino agli anni 90, è un altro particolare poco credibile.
L’impressione è che Montalbetti un po’ abbia cercato di costruire dei raccontini a effetto, sacrificando la verità storica in nome del coup de théâtre, e un po’ abbia dei ricordi confusi, il che è comprensibilissino. In entrambi i casi, un editor avrebbe potuto scovare i bug nel racconto, segnalarli all’autore e concordare con lui un modo migliore per raccontare i ricordi di Montalbetti, che così, invece, non ci fa proprio una bella figura. E dispiace assai, per la stima artistica che tutti abbiamo di lui. Un vero peccato, anche perché, senza aneddoti clamorosi, il libro è pieno di una verità umana anche toccante, sul Battisti degli esordi e degli anni del successo: una persona chiusa (certo, lo sapevamo), ma in possesso di un mondo interiore delicato e timido in cui davvero, come ebbe a scrivere Mogol, “anche un sorriso può fare rumore”. Qui si innesta una delle tesi più interessanti e meno dimostrabili del libro: Montalbetti riferisce più volte che ciò che Battisti apprezzava di Mogol era la capacità di interpretare ed esprimere il proprio mondo interiore (di Lucio, intendo), suggerendo così che i testi scritti da Rapetti esprimerebbero così i pensieri di Battisti. Tesi indimostrabile, dicevo, se non altro perché Mogol ha sempre ribadito di aver scritto per Battisti testi assolutamente autobiografici. La verità, forse, sta nel mezzo. Interessante anche il fatto che in almeno due occasioni, a distanza di anni, ormai giunto al successo (quindi dopo il 1969), Battisti avrebbe espresso a Montalbetti l’intenzione di mollare Mogol, con cui avrebbe lamentato un rapporto troppo freddo. Ogni volta Montalbetti avrebbe sconsigliato a Battisti di divorziare artisticamente da Mogol. Ma, se fosse così, le ruggini tra i due sarebbero molto antiche, forse databili addirittura (ipotesi mia) a quel 1972 in cui Lucio firmò i testi di due brani, uno per la Formula Tre (Aeternum) e uno per Alberto Radius (Prima e dopo la scatola): prove generali di un’abortita carriera da cantautore?
I motivi di interesse, insomma, non mancano. Ai lettori la decisione se essi siano superiori ai difetti e rendano quindi meritevole di acquisto il memoir di Montalbetti.
Articolo del
15/03/2013 -
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