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Ognuno ha una città del rock nel suo cuore. Magari la vostra è la Liverpool dei Beatles o la Londra degli Stones, Bowie e Sex Pistols oppure la San Francisco di Grateful Dead, Jefferson Airplane e Santana o ancora la New York dei Velvet Underground prima e di Patti Smith, Television, Talking Heads poi o infine la Seattle di Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden. La mia città rock del cuore è Manchester. E gli argomenti non mi mancano certo. La patria di Buzzcocks, Joy Division, New Order, A Certain Ratio, Fall, Smiths, Happy Mondays, Stone Roses, Charlatans, A Guy Called Gerald, 808 State, James, Oasis, della Factory e dell’Haçienda, del post-punk così come della generazione “E”, punto di partenza per l’invasione dell’acid house in Inghilterra e quindi genitrice del fenomeno MaDchester, prodromo tanto della Seconda Estate dell’Amore (1988-1989) e del Britpop (che Robb, creatore di questa espressione, definisce il proseguimento di “Madchester parte II”, il tentativo del resto dell’Inghilterra “di cercare di mettersi in pari con le band e la cultura di Manchester”) ha tutti i numeri per essere amata alla follia e religiosamente.
A Robb interessa però una certa Manchester: quella che, nel ventennio 1977-1996, è stata una specie di villaggio dalla cultura musicale straordinariamente feconda e la cui scena era una sorta di comunità in cui tutti conoscevano tutti (obbiettivo perseguito con tenacia proprio dalla stessa Factory, l’etichetta indipendente creata da Tony Wilson, nonostante le tarde accuse di elitarismo). Per indagare come abbia potuto nascere un fenomeno simile, per cui non solo gli artisti di Manchester non dovevano recarsi per forza a Londra, in quanto tutte le strutture discografiche necessarie per ambire al successo si trovavano in casa, ma la città era addirittura divenuta un polo di attrazione non solo per la Northern England, ma anche per i londinesi più avvertiti (immaginate una cosa simile in Italia: gli addetti ai lavori che lasciano Milano per andare a vivere a Torino, Bologna, Firenze, Genova, Napoli, Venezia o Palermo...), Robb parte dalla preistoria degli anni 60 e 70, “scoprendo” che la città e il circondario erano tra le basi più solide del northern soul e del glam rock, due attitudini che sarebbero state una costante nel destino musicale della città: l’interesse per la dance e la curiosità intellettuale. Prosegue poi, così come ha iniziato, ovvero lasciando la parola ai protagonisti e ai loro ricordi, riuscendo a costruire un racconto corale straordinariamente efficace non solo per le indubbie doti di montatore di Robb, ma anche perché in questo modo si restituisce il senso della comunità, grazie a un coro di narratori che espongono i fatti, l’irresistibile ascesa di Manchester a vessillo della Northern England fino ai due culmini rappresentati dall’uscita di Definitely Maybe degli Oasis (1994: “il momento in cui la musica indie finì e divenne un termine commerciale invece di un atteggiamento”) e dalla pubblicazione contemporanea di Country House dei Blur e Roll With It sempre degli Oasis, in una sfida che riassumeva tutto: “Sud contro Nord, college contro case popolari, borghesia contro classe operaia”.
Libro bellissimo, documentatissimo e, a quanto ho potuto verificare, scevro da errori. Merce rara. Consigliato a tutti gli appassionati di rock, in particolare inglese.
Articolo del
25/03/2013 -
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