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Una bella idea, quella di Luca Pollini: raccontare la musica leggera degli anni di piombo, ovvero come l’“assalto al cielo” dell’illusione rivoluzionaria si sia tradotto nelle note che hanno fatto da colonna sonora alla vita quotidiana degli italiani degli anni 70. In realtà Pollini parte, come necessaria e ampia premessa, dal 1963, anno in cui, a settembre, Bob Dylan scrive The Times They Are A-Changing e, in cui, il 22 novembre, viene assassinato John Fitzgerald Kennedy, che tante speranze, a torto o a ragione, aveva incarnato e suscitato: è da questi due momenti che nascono la canzone e i movimenti giovanili di protesta. Il vento del cambiamento, è bene ricordarlo, partì infatti dall’Università di Berkeley in California, che nel 1964 fu teatro della prima protesta contro il coinvolgimento delle Università nel “complesso militare-industriale e politico”, che allora era protagonista della guerra in Vietnam (peraltro iniziata dallo stesso Kennedy). Proprio in quell’anno De André incideva La guerra di Piero, brano antimilitarista che, seppur in maniera indiretta, si riferiva anche alla vicenda del Vietnam, che fu una delle micce che diedero fuoco alle polveri della contestazione giovanile negli anni a seguire.
Pollini segue quindi brevemente lo sviluppo dei movimenti giovanili in Italia: Barbonia City a Milano nel 1967, Valle Giulia a Roma e l’occupazione della Statale a Milano nel 1968. Come questi fermenti si riflessero nella musica? Con l’arrivo del beat a Sanremo già nel 1966 (qui però Pollini si dimentica clamorosamente di Il ragazzo della Via Gluck di Celentano, che è forse il primo esempio di dylanizzazione della canzone italiana) e l’esplosione contestatrice del 1967, condita tragicamente dal suicidio di Luigi Tenco; con il Controfestival organizzato da Dario Fo e Franca Rame nel 1969 (che però non erano appena stati cacciati dalla Rai, come afferma Pollini: il fattaccio risale al 1962); con Chi non lavora non fa l’amore di Celentano e Mori, che vince Sanremo 1970, contestatissima all’epoca in quanto accusata di essere reazionaria, mentre non è che la traduzione à la Lennon (il brano orecchia Give Peace A Chance) della dottrina sociale cattolica (ma questo Pollini non lo dice). Molto interessante il focus sulla canzone più politica che si diffonde in quegli anni sull’onda degli acuti scontri politici e delle conseguenti tragedie: brani come Contessa, La ballata del Pinelli, Compagno Franceschi hanno una diffusione straordinaria attraverso canali alternativi (le feste di partito e le commissioni musicali delle organizzazioni extraparlamentari) o orali (il canto collettivo durante le manifestazioni), ma vendono poco, sia per le scarse possibilità delle etichette che stampano questo tipo di produzione, sia perché, come spiega Pollini con interessante intuizione, i concerti dei cantautori rossi erano di una noia inversamente proporzionale al fulminante impatto di questa o quella loro canzone.
Anche perché in quegli anni si sta diffondendo sempre più il rock proveniente dalla Gran Bretagna (più che dagli States), con l’esplosione, a partire dal 1971, del progressive e del fenomeno dei festival rock, imitazione europea e in particolare italiana dei grandi raduni Usa di Monterey e Woodstock (la cui era, al di là dell’oceano, era già terminata, specie dopo i tragici fatti di Altamont). È un’epoca complessa, in cui la componente più hippie e quella più ortodossa convivono forzatamente in una comune opposizione all’establishment, ma hanno obbiettivi e modalità di espressione palesemente diversi: da un lato il rock progressivo e psichedelico, i capelli lunghi, il naturismo, l’uso di droghe, le filosofie e le religioni orientali, il no a tutte le regole in nome di una sperimentazione esistenziale totale; dall’altro il moralismo stalinista e maoista, i capelli corti, la fedeltà alle regole di questo o quel Partito rivoluzionario. Il che dà vita a entusiasmi, critiche, distacchi: come quello di Gaber, che s’inventerà il teatro canzone e poi criticherà ferocemente il Movimento in spettacoli come Polli d’allevamento; o quello di Claudio Rocchi e Paolo Tofani, che mollano tutto ed entrano negli Hare Krishna. Tutto fino al disastro del Parco Lambro 1976, pietra tombale sul mondo dei grandi festival, in cui esplosero insanabili le contraddizioni tra ala creativa e ala ideologica del movimento.
Che non si esaurirono qui, riproponendosi nel Movimento del 1977, andando però incontro alla definitiva disfatta dell’assalto al cielo. La band prog che più aveva incarnato l’incontro tra sperimentazione e ideologia, gli Area, si sfalda per l’abbandono di Demetrio Stratos e si dedica a un jazz rock più tradizionale. Il momento storico è fotografato benissimo da Com’è profondo il mare di Lucio Dalla. Il disincanto porta a cercare altre strade, come l’evasione nella discoteca. La fine definitiva della musica degli anni di piombo la segnano due eventi: le morti di Aldo Moro e Demetrio Stratos.
Musica leggera anni di Piombo, nell’umiltà delle sue 160 pagine, è un interessante sguardo d’insieme sugli intrecci politico musicali di 40 anni fa, il cui acquisto mi sento senz’altro di consigliare. Ma non è esente da difetti: un po’ troppi errori (si citano brani di Jannacci mai entrati in classifica come hit, dimenticandosi di Vengo anch’io; si sbagliano eventi, anni, località: in tutto ho contato 16 sviste che qualche semplice controllo avrebbe facilmente evitato) e omissioni. Non c’è traccia, ad esempio, dell’ondata punk e new wave che caratterizzò l’ultima fase degli anni di piombo, che per l’Italia vanno almeno fino al 1981 del sequestro Dozier. Spero in una seconda edizione, sia per i miglioramenti che mi auguro, che per il successo che auspico per questo interessante libretto.
Articolo del
06/05/2013 -
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