|
È una bella retrospettiva su “la musica italiana degli anni Zero”, quella cosiddetta indie, come recita il sottotitolo di questo saggio di Francesco Bommartini, condotta soprattutto attraverso lo strumento delle interviste e, quindi, facendo parlare i diretti interessati.
Il saggio si apre con una discutibile prefazione di Giordano Sangiorgi, che non è il cantante dei Negramaro, ma il patron del Mei, il Meeting delle etichette indipendenti di Faenza, una realtà centrale, per quanto discussa nella promozione dell’indie italico. Discutibile prefazione, perché il Sangiorgi spara due affermazioni che si meritano il commento che Fantozzi fece della corazzata Potëmkin (nel film in realtà si chiamava Kotiomkin, ma ormai la realtà ha preso il posto dell’allusione nell’immaginario collettivo). La prima è quella per cui “la scena non mainstream” sarebbe “divenuta minoritaria con l’esplosione della musica pop italiana negli anni Sessanta”: singolare, dato che “la scena non mainstream” nasce negli anni 70, con il fenomeno dei Festival rock e l’esplosione prima del progressive, poi del fenomeno dei cantautori, due realtà di successo, anche se non immediato, e solo con gli anni 80 diventa un fenomeno sotterraneo e dalle vendite perlopiù scarse. La seconda è quella per cui “vent’anni fa si faceva un cd, si trovava chi lo stampava e distribuiva, e spesso c’erano artisti che non facevano neanche i live”. Dato che vent’anni fa era il 1993, vorrei sapere in che mondo viveva (o vive) Sangiorgi, dato che chi c’era sa benissimo che gli anni 90 sono stato il momento migliore per suonare dal vivo. Affermazione quindi incomprensibile, a meno che Sangiorgi non si riferisca alla sua singolare ed ecumenica interpretazione del termine “indie”, per cui è tale chiunque non incida per una major indipendentemente dalla musica che fa e, quindi, paradossalmente, per Sangiorgi è indie anche Pupo (non è una battuta: la sua etichetta è stata presente al MEI).
Assestati due metaforici ma meritatissimi ceffoni a Sangiorgi (“e 10 minuti nell’angolino, in ginocchio sui ceci!”), passerei al saggio di Bonmartini, che per necessità si concentra su 18 artisti, considerati i più rappresentativi della scena dello scorso decennio: Teatro degli Orrori, Tre Allegri Ragazzi Morti, The Zen Circus, Uochi Toki, Sick Tamburo, Il Pan del Diavolo (tutti La Tempesta Dischi), Dente, Calibro 35 (entrambi Ghost Records), Ministri, Verdena (entrambi Universal), Paolo Benvegnù (La Pioggia Dischi), Marco Parente (Woland), Bud Spencer Blues Explosion (Yorpikus), I Cani (42 Records), Lo Stato Sociale (Garrincha Dischi), Perturbazione (prima Santeria, poi EMI, infine Mescal), A Toys Orchestra (Urtovox), Lombroso (Niegazowana). Noterete la preponderanza di presenza di La Tempesta Dischi (un terzo degli artisti), ma è giustificata dal fatto che Bonmartini vuole offrire nel saggio una fotografia dello stato dell’arte della scena indie italiana degli anni 90 e, per come stanno le cose ora, La Tempesta ha oggettivamente una posizione egemone nei gusti del pubblico indie. Le mie perplessità iniziano vedendo Ministri e Verdena, tra 2011 e 2012, quando è stato scritto il libro, entrambi artisti Universal, cioè major. Chiariamo subito: per me è bene che ci siano, perché il mio concetto di indie non è quello di Sangiorgi (“fermo lì che non sono passati i 10 minuti!”), ma si basa sull’attitudine, sulla proposta musicale, sulla percezione del pubblico, quindi Ministri e Verdena sono certamente due band indie rock. Ma allora perché nel libro mancano i Baustelle (solo citati a p. 224)? Scelta editoriale? Rifiuto a concedere un intervista? Altre motivazioni? Una noticina sarebbe stata gradita.
Capitoli a parte sono dedicati, e giustamente, a “Etichette. Booking agency e uffici stampa”, “Videomaker e videoclip”, “I Premi”, a un paio di interviste di peso (una a Federico Guglielmi e l’altra Enrico De Angelis, due giornalisti che hanno avuto un loro peso evidente nel formarsi della scena indipendente nei decenni precedenti gli anni Zero) e, infine ad “Altri indipendenti, emergenti ed emersi”, per citare chi non ha potuto godere, per ovvie ragioni di spazio e di rappresentatività dei gusti del pubblico, del focus costituito dall’intervista. E qui mi incazzo, perché, tra “i nomi di chi è necessario conoscere” – badate bene, necessario – ce ne sono una sfilza di prescindibilissimi e insignificanti (glisserò su chi sono) e ne mancano diversi di davvero importanti: Jennifer Gentle (citati dai Verdena nel volume come loro band preferita, unici italiani sotto contratto con Sub Pop, tre tour Usa, tre in Cina, due in Uk, ecc., dichiarazioni di stima da parte di gente come Jarvis Cocker dei Pulp o Chris Robinson dei Black Crowes), Ufomammut, Mamuthones (il Guardian nello stesso articolo ha dato tre stelle ai Beady Eye e cinque a loro, per dirne una), Bloody Beetroots (remix per Timbaland, Britney Spears, Killing Joke, The Killers, Rob Zombie, Peaches, Groove Armada, Martin Solveig...), Amari (protagonisti di un hype mostruoso tra 2005 e 2008, con dischi come Grand Master Mogol e Scimmie d’amore) e i loro progetti collaterali Fare Soldi e Carnifull Trio, Luci della Centrale Elettrica (un punto fermo, centrale e indiscutibile della scena, per quanto io lo aborra), Brunori Sas (idem). Mi fermo qui.
Riserva indipendente è un buon libro, che dà quello che promette: una fotografia della scena indipendente italiana degli anni Zero. Ma nel farlo ne riproduce anche le riserve (scusate il calembour): e cioè gli steccati mentali e la tendenza a costituire una vulgata che non è altro che un mainstream minore, senza l’esposizione mediatica e i soldi di quello vero, ma che come il fratello più fortunato spesso (non sempre) non premia gli artisti più validi, bensì quelli più mediocri. Merita comunque l’acquisto.
Articolo del
13/06/2013 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|