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Lulù ha perso la memoria. È “rinchiusa” in una bella clinica romana, per provare a recuperare la sua identità, avvinghiata a una splendida, quanto inarrivabile, borsa Birkin rosa (quella in copertina), della quale non conosce la provenienza. C’è un vuoto spazio-temporale che Lulù riempie con una spezzettata narrazione di quel poco che riesce a ricordare della propria vita: per questo C’ero una volta... Tasselli di un puzzle impazzito che si ricompongono nelle assai godibili quasi trecento pagine di quello che potrebbe essere presentato come un breve romanzo di formazione di una giovane provinciale del sud, aspirante, e successivamente affermata, avvocata, immersa nelle mille luci e ombre della grande bellezza romana. Perché Lulù scrive e parla in prima persona, usando un alter ego e approfittando della scuola di scrittura “Omero”, dove questo libro è stato passato al setaccio, usando artifici narrativi per parlare di quello che accade nella propria vita, poiché la vera Lulù è un avvocato d’affari che lavora da anni in un rinomato studio internazionale, come recitano le note di copertina. Il mood è un mix tra chick lit con pulsioni da fashion addicted (e sul finire un’evocazione dei “romanzetti Harmony” chiude il cerchio), narrazione dal di dentro del roboante mondo delle law firms e attitudine sempre sospesa tra (auto)ironia, disincanto e voglia di vivere, seppure a tratti attraversata da ripiegamenti malinconici. Ma non si può insistere di più sulla trama, per non togliere il gusto della scoperta progressiva della “soggettività” di Maria Luigia Librandi, ribattezzata Lulù nel corso del colloquio da aspirante stagista alla World Phone.
Basti qui solo evocare quello che sembra essere il tema di fondo della narrazione in soggettiva di Lulù: una ricerca di se stessa, nella tensione tra vita e lavoro, amore e solitudine, amicizia e invidia, indipendenza e subordinazione, successo e fallimento, autonomia e sicurezza, emancipazione e asservimento, felicità e malinconia. Se volessimo essere epocali si tratta – dal punto di vista di chi ha puntato sulla propria rivendicazione di intraprendenza (l’ossessione per il marketing di se stessi) avendo la possibilità di frequentare una nota università privata romana – di un esempio micro delle psicosi del capitalismo nell’epoca del default individuale e collettivo, della società del rischio introiettata nell’antropologia delle nuove e vecchie generazioni, con la consapevolezza del fallimento sempre in agguato, dietro l’angolo, pronto a rispedirti nella tua sperduta provincia calabrese, dalla quale si fugge senza neanche più gettare uno sguardo all’indietro, se non con dovizia di immensa ironia e distacco. È insomma una narrazione immersa nelle turbe psichiche di questi strani tempi ancora troppo imbevuti di spietato individualismo, vuota apparenza, egocentrismo estetizzante, alla ricerca di un “qui e ora” che possa somigliare, almeno lontanamente, all’happy end di una favola post-moderna. Eppure le pagine in cui ci si immerge nella giungla carrieristica dello “Studio” di avvocati d’affari sono assai azzeccate: dietro al gergo anglofono, tra closings, due diligence, assignment da completare overnight, ci sono le miserie e le nobiltà di lottare con tutto il proprio ego – e contro tutti gli altri – per accedere all’élite globale che governa gli affari, mentre sullo sfondo molte vite rischiano di rimanere ostaggio di solitudine e paranoia.
Così il libro è disseminato di esilaranti monologhi e dialoghi: dall’assenza di aerei, anche in leasing, per la Calabria (“because Salerno-Reggio Calabria is not an invention of Stephen King!”), al meraviglioso mondo degli spogliatoi femminili delle palestre romane: “perché le donne negli spogliatoi femminili sono capaci di qualsiasi cosa”. Passando per l’evocazione di una monografia su Decostruttivismo e Critical Legal Studies: prospettive ermeneutiche tra Europa e America, piuttosto che un imprecisato elenco di scarpe tacco tredici (o dodici?).
In mezzo una miriade di co-protagonisti dello sforzo collettivo alla ricerca dell’identità perduta di Lulù, fantasmi convocati al suo capezzale di smemorata: la vita da universitaria fuorisede del sud; il ditone di Antonio Fanara, devoto dell’Arte della guerra di Sun Tzu, come l’ultimo, autodistruttivo, Debord; il Caronte Lallo, seppure indugi troppo nei locali di Roma Nord e sia spesso bonariamente deriso dalla protagonista nelle colazioni all’alba da Romoli; ‘O Mago d’ ‘o burdell Luigi Cavalieri; Monique e il suo botox; la saggia bulimia di Donato Guastamacchia; le inseparabili amiche Luisa e Alice; il “Professore” e il suo programma per il recupero della memoria; il sempre presente Alessandro Malaspina, che ha come guida il motto di Robert De Niro in Men of Honor: “Mi piace rompere il cazzo” .
Così, anticipiamo senza disvelare nulla, sarà una imprevedibile versione cantata di A Te di Jovanotti a rompere l’incantesimo dell’oblio; a conferma che, tra finzione letteraria e vita vissuta, è sempre la musica una tra le passioni più potenti in grado di rimetterti al mondo, laddove neanche la volontà arriva. Per tutto questo C’ero una volta... è una perfetta lettura estiva, in spiaggia, o all’alba dell’ennesima nottata, romana o meno che sia. Perché non si può che provare una diffusa simpatia per la protagonista di questa, a volte anche spiazzante, ricerca di se stessa: a metà tra A colazione da Romoli, La smemorata delle griffe e I turbamenti del divenire stagista e poi avvocata affermata della giovane Lulù. Aspettiamo la seconda prova, immaginando che autrice ed editore stiano già pensando ad una riduzione cinematografica: per quella musicale c’è già il classico Jovanotti in sottofondo, mentre riempie gli stadi dell’estate italica.
Articolo del
15/07/2013 -
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