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Accadeva giusto cento anni fa: la prima banda di rapinatori forniti di auto terrorizzava Parigi. E non si trattava di criminali comuni, ma di anarchici, di una branca particolare dell’anarchismo, quella illegalista, che teorizzava la risposta criminale all’oppressione dello Stato, madrina forse degli espropri proletari degli anni ’70 e dei Black Bloc di più recente memoria. Il meccanico e autista Jules Bonnot è una figura singolare: negli anni che lo videro accostarsi sempre più all’idea di mettere su una banda basata sull’utilizzo dell’auto come arma di rapina finì pure per essere autista personale di Arthur Conan Doyle per diversi mesi, nel corso di un suo soggiorno inglese (il padre di Sherlock Holmes lo verrà a sapere solo molti anni dopo, nel 1921, chiamato in Francia proprio per una conferenza sulla Banda Bonnot), in una di quelle storie che potevano capitare forse solo nella Belle Époque. Ma fu anche una figura poco limpida: mai chiarite – e mai lo saranno - le circostanze della morte violenta del suo primo complice, l’italiano Platano, nel trasferimento da Lione a Parigi che avrebbe dato vita alla banda. A Parigi, troverà i suoi complici tra alcuni degli anarchici che gravitavano attorno alla rivista L’anarchie, diretta da Victor Serge, che sarà uno dei protagonisti minori della storia del ’900: figlio di un ufficiale della Guardia imperiale dello Zar, divenne prima anarchico, fui mandato in esilio, partecipò all’insurrezione catalana del 1917; quindi nel 1919 è in Russia e diventa bolscevico, finendo per schierarsi, pur criticamente, con Troskij contro Stalin e condividerne il destino in Messico. E in tutto questo riesce a subire un processo in Francia per il suo coinvolgimento involontario nelle attività della Banda Bonnot. L’argomento, insomma, è affascinante e si capisce bene come il cantautore Giangilberto Monti ci si sia buttato anima e corpo, complice anche il fatto che pure il suo idolo Boris Vian fu chiamato ad occuparsene per una rappresentazione teatrale nella Francia degli anni ’50 sulla Banda Bonnot, per la quale scrisse una dozzina di canzoni. Così Monti costruisce il suo libro come una mise en abyme, una discesa nell’abisso narrativo, partendo proprio dal compito assegnato a Vian, al quale ogni tanto e in conclusione del libro torna, per dedicarsi soprattutto alla ricostruzione cronologica e il più fedele possibile delle attività della feroce Banda Bonnot. Monti non è un romanziere coi baffi (per quanto sia dotato di pizzetto) e in alcuni punti, specie all’inizio, il suo racconto stenta a coinvolgere. Poi però – sarà la forza della storia in sé, sarà una maggior confidenza nei propri mezzi espressivi – il meccanismo narrativo avvince il lettore, arrivando al suo culmine nelle numerose pagine dedicate al processo, che videro anche la condanna di un innocente, che evitò la ghigliottina per un pelo, ma si cuccò i lavori forzati in Cayenna. Alla fine il romanzo avvince e convince. Se ne potrebbe trarre una bella serie televisiva, se non andassero di moda serial killer e zombie, e se in Italia si sapessero fare.
Articolo del
31/10/2013 -
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