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Ci siamo: la Trilogia sporca dell’Italia è giunta al suo compimento. Dopo Confine di Stato (2007), dedicato agli intrighi segreti degli anni tra il 1954 e il 1972, dopo Settanta (2009), che prosegue la storia fino al 1981, dopo il futuro ideale della trilogia, la graphic novel United We Stand (2009), dopo averci fatto dubitare della conclusione del ciclo con gli intrighi internazionali di J.A.S.T. (2010) e con i romanzi storici d’epoca romana Colosseum (2012) e Invictus (2013) – e sto tralasciando alcuni romanzi brevi del vulcanico novarese -, finalmente arriva Il Paese che amo, che giunge fino alla discesa in campo del 1994.
Come al solito, romanzo strepitoso, che si fa leggere tutto d’un fiato, anche se di composizione più difficoltosa, come racconta lo stesso Sarasso, dato che gli anni 80 li ha vissuti in prima persona e hanno il profumo dell’infanzia (lo scrittore è classe 1978). Una materia più difficile da trattare con distacco e anche, forse, più difficile da sporcare con la consapevolezza delle trame sporche che li hanno attraversati e sporcati nel profondo. Forse per questo, differentemente da quanto accadeva nei volumi precedenti, compaiono sia citazioni tanto di jingles pubblicitari quanto di canzoni d’epoca sia un’insistita attenzione alle marche di oggetti e vestiario – mai stucchevole – che assomma un leggero omaggio al Bret Easton Ellis di American Psycho alla duplice funzionalità di madeleine proustiana e caratterizzazione precisa dell’ossessione, tutta anni 80, per le griffes. Quello di Sarasso, per chi non ne conoscesse la trilogia sporca, è un esercizio di riscrittura del passato recente e marcio del nostro Paese, che lascia inalterata la sostanza dei fatti, ma ne cambia i dettagli in favore di una maggiore compattezza narrativa e – soprattutto – di una chiarificazione sostanziale delle trame occulte che hanno guidato la storia d’Italia. Allo stesso modo, più che nei due romanzi precedenti, i personaggi fittizi alludono meno chiaramente a quelli reali: se in Settanta, per dire, il riferimento di Francesco Argento era costituito per un buon 90% da Aldo Moro, qui spesso caratteri sono la somma di più persone reali o addirittura interi ambienti. Così la star polacca del porno Ljuba Marekovna concentra in sé frammenti tanto dell’ungherese Ilona Staller quanto dell’italiana Moana Pozzi, senza tuttavia essere nessuna delle due; Zio, il capo della mafia, ha i tratti tanto di Bernardo Provenzano quanto di Totò Riina; il magistrato Carlo Ciaccia unisce in sé perlomeno Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Antonino Caponnetto; e via dicendo. Dei romanzi precedenti rimangono alcune figure chiave: l’onnipresente Andrea Sterling, agente dei servizi segreti deviati (ma siamo sicuri che fossero davvero deviati?); l’Omino, alter ego fittizio di Giulio Andreotti; e il magistrato Domenico Incatenato che, in questo romanzo, assume in larga parte i tratti di Antonio Di Pietro (ma non lo è, non fosse altro per il fatto che è sposato a una magistrata, Rita Briganti, che sembra tanto, a sua volta, Ilda Boccassini), dopo aver avuto, in Settanta, caratteristiche tali da ricondurlo al giudice Guido Salvini. È già un bel divertimento riconoscere le varie personalità, il cui elenco vi taccio. Ma anche Sarasso deve essersi divertito un bel po’ ad alludere qui e là a colleghi di penna: come nel caso di Ellis, citato prima; o come nella scena del ristorante di Marsala, in cui il killer della mafia Salvo Riccadonna incontra Carlo Ciaccia, in un ambiente che ricorda non poco i ristoranti del commissario Montalbano di Andrea Camilleri (peraltro la scena si evolve in un inseguimento degno dei migliori poliziotteschi italiani degli anni 70).
In conclusione, un altro Sarasso consigliatissimo, agli amanti del noir, agli appassionati delle vicende oscure della storia d’Italia e, in definitiva, a tutti.
Articolo del
06/11/2013 -
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