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Reduci dalle tappe italiane del tour di Bob Dylan, che c’è di meglio per ricordarlo, mentre se ne ascoltano le canzoni, che leggere questa sua bella biografia, compilata da Brian Southall?
Certo, in 64 pagine, non si scende nei dettagli, né si scava tra le pieghe più nascoste della vita del menestrello di Duluth: ma è davvero un bel leggere. In primo luogo, perché le 64 paginette sono davvero grandi e scritte in caratteri piccini picciò, che farà anche ridere, ma vuol dire, se ci si pensa bene, che già dal punto di vista quantitativo non siamo di fronte a uno di quelle biografie di cui si può evitare l’acquisto perché tanto Wikipedia ormai ci dice di più. In secondo luogo, perché l’autore, Brian Southall, giornalista negli anni ’60 per la stampa musicale inglese e dai ’70 discografico della EMI, è uno che ne sa per esperienza diretta e riempie il suo veloce racconto della vita di Dylan con dichiarazioni fatte alla stampa, ricordi personali, punti di vista inediti e, pur essendo dichiaratamente un fan incallito, non scade mai nell’agiografia: ad esempio, non fa nulla per minimizzare il pessimo carattere del nostro Bob (peraltro universalmente conosciuto). In terzo ed ultimo luogo, perché questa biografia più che un libro è un’esperienza: ricchissimo di belle fotografie, che mostrano anche il poco noto (l’avevate mai vista la casa natale di Dylan a Duluth?), sfodera pure cinque cartelline, inserite nel libro a pieno titolo, con riproduzioni anastatiche di biglietti, adesivi, volantini, poster, pass. Insomma, per il fa c’è di che leccarsi baffi.
Non tutto è perfetto: la pecca di Southall è dimenticarsi per strada, nel racconto dei dischi di Dylan, il controverso live “Bob Dylan at Budokan” (1979), uno dei dischi più stroncati del Nostro all’epoca della sua uscita, ma oggetto di una recente rivalutazione (contiene una sorprendente versione reggae di Don’t Think Twice, It’s Alright, sulla falsariga di No Woman, No Cry, ad esempio, o migliora l’arrangiamento di molti brani usciti nell’immediatamente precedente Street Legal, altro brano sottovalutato). La traduzione di Giovanni Melis, in genere buona, mostra due difetti: l’uso del condizionale passato nel periodo ipotetico e la traduzione del quasi sottotitolo di Planet Waves, Cast-Iron Songs & Torch Ballads, che non vuol dire “Canzoni forgiate nel ferro e ballate come fiaccole”, dato che le Torch Ballads (o Torch Songs) in inglese sono le canzoni d’amore strappalacrime (“to carry a torch for someone” significa “reggere il moccolo”) e “Cast Iron” vuol dire “ghisa” (per cui l’intera frase sta per qualcosa di simile a “Canzoni da veri duri e ballate strappalacrime”).
Mancanze perdonabili, di fronte alla bontà complessiva dell’opera, al piacere feticista che provoca anche in chi non è uno stretto fan di Dylan, e all’interesse che può suscitare anche nel semplice curioso di un primo approfondimento, grazie alla sua non eccessiva lunghezza. Consigliatissimo.
Articolo del
15/11/2013 -
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