|
Renzo Zenobi è tanto una parte fondamentale della storia della canzone d’autore italiana degli anni ‘70, in particolare della cosiddetta scuola romana che ruotava intorno a RCA e etichette affiliate, quanto un oggetto misterioso nella storia della musica italiana. E misterioso da diversi punti di vista. Innanzitutto da quello del grande pubblico, che, pur avendone ascoltato ed apprezzato il limpido chitarrismo acustico nei brani e negli album “Alice non lo sa” e “Rimmel” del più fortunato amico e collega Francesco De Gregori («Suonava tutto pulitino e mi diceva sempre che dovevo imparare a suonare meglio la chitarra. Lui eseguiva dei fingerpicking impeccabili, con tutte le note che suonavano allo stesso livello, mentre io arrancavo dietro di lui dimenticando pezzi di arpeggi», ha dichiarato il Principe in un’intervista a “Chitarre” nel 1990), ne ha ignorato quasi completamente la produzione solistica, pur corposa e cospicua (sette album tra 1975 e 1982, più altri due negli anni 90 e uno ora). Per una volta la colpa non è stata della discografia, perlomeno nel suo primo periodo: avere alle spalle un colosso della discografia anni ‘70, la mitica RCA romana, la stima di un produttore artistico fondamentale come Lilli Greco («Era un paroliere molto dotato», disse nel 2007), l’ammirazione e il sostegno da parte del direttore artistico RCA Ennio Melis, le collaborazioni con Ennio Morricone (per l’album “Bandierine” del 1978) e Lucio Dalla (che produsse “Telefono elettronico” nel 1981), l’amicizia con Baglioni (che qui firma la prefazione), i tour con De Gregori, Dalla e Ron, avrebbero dovuto preludere, se non al successo di massa, a una certa fama, a un certo interesse di pubblico, a qualche minor hit. Invece no. I dischi di Zenobi, spesso pure dalle belle copertine, giacevano abbandonati nei negozi come Zenobi stesso appariva sulla copertina di “Bandierine” del 1978: solo su una spiaggia deserta, intento a guardare il mare d’inverno sotto i batuffoli grigi di un cielo nuvoloso. Ricordo che ci si fermava, su quelle copertine, prendendo pure in considerazione l’eventualità di un acquisto (gli Lp avevano un prezzo relativo piuttosto basso, negli anni ‘70, e non era raro il caso di acquisti “rischiosi”, a volte forieri di belle scoperte), magari ricordandosi di certi rari ascolti radiofonici, in qualche trasmissione dedicata alla canzone d’autore su questa o quella radio libera: ma poi inevitabilmente si passava ad altro, rimandando l’acquisto e preferendo più solide certezze. Cosa aveva Zenobi che non andava? I suoi stessi pregi: i suoi brani da un punto di vista testuale vivevano di un lirismo “difficile”, intensamente metaforico, specie agli esordi, che necessitava di un ascolto molto più attento di quello che richiesto da altri cantautori e altri generi; la relativa complessità testuale si appoggiava poi su linee melodiche di non immediata cantabilità, senza i ritornelli memorabili di – che so? – una “Pablo” (De Gregori) o una “Lilly” (Venditti); la voce delicata e l’erre moscia ancora non sdoganata complicavano poi la fruibilità immediata delle canzoni di Zenobi. Detta così, la sua produzione sembrerebbe un disastro: e invece è fatta di acquarelli delicati, tra il francescano e il preraffaellita, che difatti hanno dato vita a un pugno di ammiratori e fans esiguo, ma, per fortuna, ostinato e combattivo. Proprio dal loro affetto nasce questo “Canzoni Sulle Pagine, volume di Arcana che contiene sia l’omonimo nuovo cd del cantautore ormai sessantaseienne, sia la raccolta completa dei testi degli album usciti a suo nome (escludendo quindi le canzoni regalate ad altri interpreti), stampata intelligentemente a ritroso, partendo cioè dall’ultimo disco per arrivare al primo. È un bene, perché un libro così inusuale per i tempi d’oggi (in cui è facile trovare i testi di quasi chiunque on line – ma non di Zenobi) permette di partire dal facile delle ultime produzioni per arrivare al difficile delle sue prime canzoni. E, per una rarissima volta, la separazione tra testi e musiche generalmente convince, a riprova dello spessore autoriale del cantautore romano. La poetica di Zenobi è sintetizzabile in un suo verso dal suo “Danze” (1977): “Mitizzare un ricordo”.
E così la vita passa a uno scrittore mitizzare un ricordo farne un grande concerto poi suonarlo con i tasti sulla carta di Fabriano.
Zenobi fruga il suo passato, personale e recente o familiare e lontano, ne indaga petrarchescamente il senso e lo abbellisce con versi che, all’inizio della sua carriera, hanno il pregio di unire suggestioni dylaniane e della Beat Generation («E l'ultima volta che ho detto qualcosa / gridavi alle stelle la tua incomprensione / e adesso la pioggia è diventata di neve / e adesso capire è più dolce di urlare; / le torri lontane della mia saggezza / hanno tegole rotte e bisogno di affetto», da “Canzone ad un fiore”, 1975) a una limpidezza che ha radici prettamente fiorentine (lui romano!), che spaziano dallo stilnovismo all’ermetismo novecentesco («Tutto su un tramonto viola acceso / con il tè sopra Firenze, / nuovi giorni prometteva aprile; / cerchi di limone alle colline, / il tuo glicine sognava, / nodi di mare sulle nostre dita», da “Silvia”, 1975). Meno incisivo il nuovo cd, con le canzoni un po’ soffocate, a mio avviso, da arrangiamenti troppo “musica leggera anni ‘80”, quando, si sa, il meglio Zenobi lo dà lasciando parlare il fingerpicking della propria chitarra. Ma questo non impedirà ai fans di apprezzarlo come un amico caro che non si vede da troppo tempo.
Articolo del
05/02/2014 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|