|
Attenzione numero uno: questo non è un libro sui Doors, ma sulla causa che ha contrapposto nel 2004 il batterista dei Doors John Densmore ai due ex compagni di band Ray Manzarek e Robby Krieger circa l’improprietà o meno dell’utilizzo del nome della band da parte degli ultimi due per i loro concerti in compagnia di Stewart Copeland (ex Police) e Ian Astbury (ex Cult). Attenzione numero due: e però questo è un bel libro. Quello di cui si parla realmente nel libro, con il pretesto delle cronaca del processo, peraltro mai arida e sempre ben narrata, è una questione di fondo nella nostra società, che va ben al di là dello “spirito di un’epoca” e dell’“eredità di Jim Morrison”, benché nello specifico tutto prenda le mosse da lì. E cioè è il rapporto tra opera d’arte e suo sfruttamento commerciale. È dalla metà dell’Ottocento che si dibatte intorno a questo tema, diventato insieme più scottante e più dimenticato con il trionfo della società di massa e della sua conseguente tendenza alla spettacolarizzazione di ogni aspetto della vita contemporanea, spettacolarizzazione che si traduce in commercializzazione e vendibilità. Anche se oggi sembra prevalere la completa abdicazione dell’arte al commercio che di essa se ne fa, permane comunque una certa resistenza a questa tendenza, espressa in modi anche piuttosto difformi dal tradizionale rifiuto della commercializzazione (cioè dall’elitarismo): che cosa rappresentano infatti il free download o il creative commons se non un nuovo tipo di rifiuto dell’automatica traduzione del prodotto artistico in prodotto commerciale? Al posto di dire “l’arte è così preziosa da non avere prezzo” si pratica il principio per cui, “se l’arte non è valutabile in termini economici, deve essere gratis per tutti”. A parte qualche idealista, questa posizione non rende certo felici gli artisti che alla propria arte vorrebbero dedicarsi in toto, e quindi vivere di essa: aspirazione che, per essere realizzata, comporta l’accettazione di una certa traducibilità dell’opera d’arte in prodotto commerciale, se non altro come frutto del proprio lavoro intellettuale e fisico, per non parlare della valutazione della significatività e della bellezza che è sempre stata praticata dal genere umano fin dalla notte dei tempi. Il resoconto della causa intentata da Ray Manzarek e Robby Krieger a John Densmore, che si opponeva, come già detto, all’utilizzo del nome Doors per la nuova band formata dagli ex colleghi con Copeland e Astbury, è denso di riflessioni in questo senso e ha quindi un valore aggiunto che non soddisferà i cacciatori di aneddoti, ma che potrà aprire gli occhi a molti sul sottile discrimine tra vivere dei prodotti della propria arte e svenderli per brama di guadagno. È in questo che risiedono “lo spirito di un’epoca” (ovviamente gli anni 60) “e l’eredità di Jim Morrison”. Quest’ultima si concreta in un aneddoto particolare, che ha segnato in modo indelebile la storia dei Doors e i rapporti decisionali interni alla band: nel 1968 la casa automobilistica Buick offrì 75.000 dollari ai Doors per usare Light My Fire come colonna sonora del suo prossimo spot; Manzarek, Krieger e Densmore, non riuscendo a reperire Morrison, accettarono, contravvenendo alla regola che la band si era data due anni prima, secondo la quale ogni decisione avrebbe dovuto essere presa all’unanimità; quando Morrison lo venne a sapere, dopo un litigio con i tre, diede mandato agli avvocati dei Doors di rescindere il contratto, altrimenti avrebbe fatto a pezzi una Buick con un grosso martello in diretta tv. Di qui la riconferma assoluta della regola del veto, rimasta valida anche negli anni successivi alla morte del cantante. Negli anni successivi, ovviamente, arrivarono ai Doors superstiti, non più baciati dal successo ma gratificati economicamente dalle royalties del loro catalogo, altre offerte pubblicitarie, sempre più appetibili. Furono sempre rifiutate, specialmente nel caso delle sigarette giapponesi Pearl (in quanto prodotto dannoso), un’offerta che avrebbe probabilmente comportato anche la popolarità postuma dei Doors nella terra del Sol Levante, per qualche misteriosa ragione rimasta sempre impermeabile alla musica della band. Densmore, come beneficiario dei diritti del catalogo, si è sempre posto il problema della responsabilità etica di chi ha avuto molto, in termini di denaro, dalla vita, e quindi dalla società in cui vive: per cui ha sempre destinato una quota dei suoi proventi a iniziative benefiche, di sostegno all’ambiente e alle fasce disagiate della società. Per questo è stato accusato dagli avvocati di Manzarek e Krieger di essere amico di anarchici, terroristi e qaedisti. È un aspetto interessante: chi ha avuto deve restituire (che il principio della democrazia e per cui esiste nel mondo la tassazione progressiva), significativamente stigmatizzato come antiamericano e anticapitalista dalla parte avversa. Densmore invece dimostra che è suo modo di pensare ad essere in accordo con le radici storiche ed ideologiche degli Usa e della democrazia. Allo stesso modo, se è lecito arricchirsi grazie ai proventi della propria arte, non è lecito sfruttarla per avere sempre di più e in spregio di qualsiasi principio morale, tra cui è compreso anche il non tradire i propri fans associando la propria musica a un altro prodotto. Questioni importanti e a cui è impossibile dare una risposta definitiva, ma che Densmore riesce a trattare in maniera efficace, sia attraverso le riflessioni di cui è ricco il libro, sia attraverso la narrazione di una causa in cui protagonisti finiscono per impersonare diverse posizioni etiche: il batterista incarna l’idealista pragmatico, Manzarek l’avido, Krieger l’indeciso che vorrebbe essere neutrale e finisce per essere risucchiato dal sistema. Simbolico.
Articolo del
09/03/2014 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|