Una recente classifica sulla nostalgia musicale poneva gli anni ’80 nei suoi bassifondi, appena sopra i dimenticati anni ’50. Ciò non vuol dire che i due decenni non sia stati importanti come i più celebrati ’70, ’90 e ’60: gli anni ’50 hanno inventato quello di cui siamo ancora qui a parlare, anche solo per chiederci se sia morto definitivamente o prossimo a futura resurrezione; gli anni 80, perfino nei loro aspetti più commerciali e musicalmente disimpegnati, hanno rappresentato, almeno fino al 1984-1986, una rivoluzione totale del concetto di rock, fatta di scatti futuristici in avanti e di ripartenze da passati dimenticati al fine di disegnare presenti ucronici e distopici (cioè come avrebbe potuto essere la musica rock se…, ecc., ecc. ecc. Lo confesso: volevo farvi vedere che mi sono letto il vocabolario. *Autoronic mode on*). Livia Satriano, già autrice di un ottimo volume dedicato alla no wave, si concentra su un aspetto del periodo appena sfiorato nel volume precedente: e cioè l’avanguardia degli anni ’80 italiani. E lo fa scegliendo di dare la parola ai protagonisti, con racconti di prima mano affidati al compianto Roberto Freak Antoni (Skiantos), a Marco Bertoni dei Confusional Quartet, Carlo Casale dei Frigidaire Tango, Andrea Chimenti dei Moda, Federico Fiumani dei Diaframma, Johnny Grieco dei Dirty Actions, Giorgio Lavagna dei Gaznevada, Marcello Michelotti dei Neon, Christina Moser dei Krisma, Marinella “Lalli” Ollino dei Franti, gianCarlo Onorato degli Underground Life, Fausto Rossi, Massimo Zamboni dei CCCP e PHabio Zigante (“Miss Xox”) del Great Complotto. Completa il volume una gustosa scelta di articola d’annata che dibattono sulle prospettive del nuovo rock italiano (da ammirare la prosa del giornalismo musicale d’allora, altroché). Quello che esce da questi racconti che partono un po’ prima del 1980, dato che gli anni ’80, pure quelli italiani, come accade sempre con le ere musicali, sono iniziati un po’ prima, esattamente nel 1976-77, è un panorama di estrema creatività e vitalità, di voglia di partecipare e riscrivere la storia della musica a tutti i livelli. «C’era un gran fermento, la sensazione che fosse finita un’epoca, un reset generale che ti dava una spinta incredibile a inventare perché quella era la priorità assoluta, non c’erano cliché da riproporre se non l’influenza dei tuoi contemporanei e tutto dava origine per forza di cose a un’abbondanza di creatività che non si vedeva dalla fine degli anni sessanta», racconta Carlo Casale. Un clima di palingenesi: «Il nome The Great Complotto era stata una mia intuizione, mi piaceva perché dava il senso di qualcosa di roboante, una grande organizzazione che faceva cose strabilianti. Era quello che volevamo essere» (PHabio Zigante). Se Johnny Grieco nota che «adesso forse il problema è avvicinare i ragazzini al palco, ma allora era il contrario, era difficile allontanarli», Zamboni racconta che «quando salivamo sul palco, mettevamo subito del filo spinato perché non volevamo avere un pubblico». Il clima era quello di una continua provocazione creativa: «Corsi alla radio, annunciai al microfono che avevo trovato una cosa devastante e misi su Blitzkrieg Bop. Scatenò un putiferio fra gli ascoltatori che mi diedero immediatamente del fascista. Allora recuperai passando Horses di Patti Smith, che era meno aggressivo, e alla fi ne mi salvai» (Giorgio Lavagna). E ancora Zamboni ricorda «una serie di combattimenti: a Milano una volta siamo stati presi a verdure in faccia al Leoncavallo, ma ce ne siamo tornati a casa carichi di provviste». Colpisce la dedizione assoluta dei protagonisti di allora («È come una religione, eravamo come dei sacerdoti di un credo», Federico Fiumani; «Il mio ricordo più bello di quel periodo è probabilmente il fatto che non vi era una differenza effettiva fra quello che ero e quello che facevo. Era un tutt’uno: andare in giro a suonare, dedicarti a quello che più ti piace e rappresenta, essere immerso totalmente nella musica», Marcello Michelotti; «Durante le registrazioni di Bandiera, lavoravamo sodo. Ricordo che una volta siamo stati capaci di restare in sala prove per tre giorni di fi la a suonare ininterrottamente, una tirata no stop, con alcuni di noi che ogni tanto crollavano per la stanchezza. A turni qualcuno usciva a procurare del cibo», Andrea Chimenti). Così come, contrariamente a quello che si può pensare, la new wave italiana non nascesse dalla pedissequa imitazione dei fermenti punk e new wave stranieri, ma, analogamente ad essi, dal germinare dei semi di altro rock seminati nel corso degli anni: «Ascoltavamo e amavamo la Bonzo Dog Doo-Dah Band, i Fugs, Ruben Guevara» (Freak Antoni); «portammo con noi un vecchio mobile da distruggere sul palco suonandolo con martelli, in stile Frank Zappa» (Marco Bertoni); «fra rock’n’roll, glam e Kiss io ero un po’ una mosca bianca» (Giorgio Lavagna). Totale la rivolta contro il cantautorame nostrano: «I testi inizialmente volevano essere in rima baciata, da scuola elementare, e trattavano di tutto quello di cui normalmente i cantautori non parlavano: cose comuni, banali, come la pastasciutta, il cibo o i gelati, metafore delle cose che più ti piacciono nella vita. L’importante era evitare i cliché» (Freak Antoni). Al netto di qualche esagerazione autoesaltatrice (Zamboni è poco credibile quando afferma che «musicalmente, il punk non mi è mai piaciuto e se escludo solo certo punk tedesco, il resto, quello inglese e americano, dopo un po’ mi aveva già rotto», dato che il riff punk di “Trafitto” è copiato da quello di “I don’t want to be a Victim” dei Varukers: ascoltare per credere), il volume di Satriano offre un splendido spaccato del clima creativo dell’epoca, anche se frammentato caleidoscopicamente in varie testimonianze e vari punti di vista. Sconsolante il raffronto con l’oggi, affidato alle parole di Fausto Rossi, uno degli artisti di allora più esaltati dall’odierna scena indie: «La cosiddetta musica indie la trovo insopportabile: testi infantili, canzoni tutte ugualmente mediocri. E l’altro lato della medaglia qual è? Le canzoni e i personaggi che arrivano dai talent show, che hanno diffuso la falsa idea che si può insegnare a cantare e a scrivere canzoni, neanche fossero materie scolastiche. Le voci di tutti questi cantanti sono interscambiabili, una vale l’altra. Sono umanoidi, ibridi». In attesa che lo cose cambino, può essere utile guardarsi indietro, come nelle crisi di crescita dei bambini, per poi ripartire di slancio. Anche per questo, consiglio calorosamente la lettura di “Gli altri Ottanta”.
Articolo del
17/06/2014 -
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