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La mia musica e gli anni Sessanta, recita il sottotitolo di questo memoir di Joe Boyd, fondamentale manager, produttore, agitatore culturale attivo tra 1962 e 1974. “Il miglior libro sulla musica degli ultimi anni” strilla un giudizio di Brian Eno databile al 2006, anno in cui uscì l’edizione originale di questo aureo libretto, già edito in Italia quattro anni fa da Odoya e ora meritoriamente ristampato. Eno ha ragione, meglio dirlo subito: se non è il miglior libro, poco ci manca, perché permette di cogliere il fenomeno musicale in tutte le sue componenti, da quella manageriale e commerciale, a quella artistica, a quella psicologica.
Tipico esempio di chi ha fatto un mestiere della propria passione, cominciando a organizzare concerti a 18 anni, quando nel 1960 invitò il jazzman Lonnie Johnson, da tempo ritiratosi dalle scene, a tenere un house concert, Boyd ha sempre avuto l’aspirazione di essere l’uomo dietro le quinte che fa accadere le cose, l’eminenza grigia dell’attività musicale. C’è riuscito pienamente e Le biciclette bianche restituisce in pieno, in modo spassoso e divertente, il clima di un’epoca pioneristica, quando nell’industria musicale ci lavorava chi voleva sì guadagnare su un prodotto da commerciare, ma con amore e rispetto per l’arte che in esso, a differenza di una saponetta, alberga.
“Gli anni Sessanta iniziarono nell’estate del 1956, finirono nell’ottobre del 1973 e raggiunsero il loro apice poco prima dell’alba del 1° luglio 1967, durante un’esibizione dei Tomorrow all’UFO Club di Londra” è lo strepitoso incipit (nel prologo!) del libro, che riassume perfettamente un’epoca compresa tra l’ascesa a livello nazionale di una trasmissione tv come American Bandstand, che fu leader nella propagazione del rock’n’roll così come del suo ammorbidimento (e le losche vicende dietro il diffondersi del soft rock sono mirabilmente narrate da Boyd) e la crisi petrolifera dovuta alla guerra del Kippur, che, limitando il numero di vinili stampabili (il vinile è un derivato del petrolio) imponendo una desueta austerità all’Occidente, mise fine a un’epoca in cui tutto pareva possibile (a riprova di come, alla fine, le condizioni materiali dell’esistenza sono la struttura cui devono la loro esistenza idee e movimenti culturali). Boyd attraversa e ricostruisce varie epoche: quella degli ultimi fuochi del jazz, quando era ancora capace di mobilitare le masse, prima della rivoluzione rock del 1965, con album come Bringing It All Back Home di Bob Dylan, Mr. Tambourine Man e Turn, Turn, Turn! dei Byrds, My Generation degli Who, Rubber Soul dei Beatles e singoli come (I Can't Get No) Satisfaction dei Rolling Stones pose uno spartiacque che riorientò il pubblico giovanile, specie borghese (e quindi con la possibilità di comprare molti dischi), spostandolo dal jazz e dal folk al nuovo rock che univa i due generi suddetti con il blues e il soul dando vita a una miscela esplosiva, nuova, dinamica, progressiva e incredibilmente eccitante. Evento cardine, simbolicamente posto quasi a metà anno, il 25 luglio, il Festival di Newport, in cui Dylan portò dal vivo la sua svolta elettrica. Boyd racconta quella serata con dettagli e particolari precisissimi: lui c’era, in quanto lavorava da tempo per l’organizzazione. Dopo aver iniziato a lavorare nella scena jazz e blues (imperdibili le pagine dedicate ai tour in Usa ed Europa, spassosissime), lui adolescente iniziato alle radici della musica americana dai primi furenti rock’n’roll degli anni ’50, era infatti passato a lavorare per la scena folk (sì, quella mirabilmente ricostruita nel recente A proposito di Davis, dei fratelli Coen: a proposito, Boyd afferma che Dave Van Ronk, ispiratore del personaggio di Llewin Davis, era un autentico stronzo rompicoglioni fissato con la politica). Boyd seguì l’hype e andò dove le cose stavano succedendo più in fretta che in America: in Inghilterra.
Datosi all’attività di produttore, scopre la Incredible String Band, un nome che oggi dice poco, ma ai tempi segnò un’epoca, col suo misto di folk e visionaria psichedelia (il racconto dell’adesione della band, in massa, a Scientology, è da antologia), i Fairport Convention, semplicemente la band all’origine del folk revival inglese, Sandy Denny e Nick Drake (splendide le pagine a lui dedicate). Produsse Arnold Layne, primo singolo dei Pink Floyd, per vederseli strappare via dai maneggi dei loro manager. Fondò l’UFO Club, che diffuse la psichedelia fino a renderla un fenomeno mainstream. Con un fiuto e un’ingenuità insieme davvero Sixties, acquistò i diritti mondiali delle canzoni di un giovane promettente musicista svedese, Benny Andersson, per poi rivenderli a prezzo stracciato una volta presa la decisione di tronare negli Usa per occuparsi di cinema, convinto che tanto chi avrebbe mai comprato le canzoni di uno svedese? Subito dopo, Benny Andersson fondò gli Abba.
Anche la parte dedicata al cinema è interessante: è Boyd che registra la colonna sonora di Un tranquillo weekend di paura di John Boorman, quel Duelling Banjos che fu una hit mondiale. È sempre lui, nel 1973, a produrre il documentario Jimi Hendrix, dedicato al grande chitarrista scomparso due anni prima.
Potente affresco di un’epoca idealista e picaresca insieme, Le biciclette bianche è un libro bello di per sé, indispensabile per tutti gli appassionati di musica in generale e degli anni Sessanta in particolare. Chapeau.
Articolo del
13/08/2014 -
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