È una biografia poderosa, questa di Anthony DeCurtis, decano di Rolling Stone quello vero, americano (che poi, più tanto vero non è neppure quello), dedicata all’amico Lou Reed, scomparso nel 2013.
Ed è un libro che nasce come gentile, ma onesto tributo a un caro scomparso, lontano dai toni buonisti dell’agiografia (che non sarebbero neppure credibili, per un personaggio come Reed), ma anche da quelli scandalistici cui la vita del fondatore dei Velvet Underground fornisce materiale a pacchi.
In questo senso “A Walk on the Wild Side” si distanzia molto dall’altro poderoso tomo sulla vita di Reed, ovvero “Lou Reed. Il lato selvaggio del rock” (in inglese, “Lou Reed. The Biography”), scritto da Victor Bockris e uscito nel lontano 1994, che invece di aneddoti sconvolgenti sulla vita dell’artista in questione ne forniva a vagonate.
Non a caso, DeCurtis, nella pur ricca e puntuale bibliografia, non lo cita neanche. Questo non vuol dire che il libro di DeCurtis sia poco accurato. Tutt’altro: il giornalista americano ci ha lavorato quattro anni intervistando qualsiasi persona avesse avuto a che fare con lui e fosse ancora reperibile. Inoltre, le 382 pagine scritte fitte fitte parlano da sole. È che gli obbiettivi delle due opere, oltre agli stili dei due autori, sono estremamente differenti: puntare i riflettori sulla vita di Reed, per Bockris; metterla in stretta relazione con le sue opere in modo che si illuminino a vicenda, per DeCurtis.
Che riesce in un miracolo: non scrivere una mera rassegna critica di recensioni degli album di Reed; non compilare un libro prettamente anedottistico, ma neppure tacere di bricconerie e lati oscuri del suo oggetto di indagine; trovare il magico punto di equilibrio in cui la vita si riversa nelle opere di un’artista ed è sua espressione. Perciò c’è un’incredibile sostanza artistica e umana in questo volume, unita a riuscite ricostruzioni di ambienti e situazioni inghiottite dal tempo ormai anche dall’altra parte dell’Oceano: dalla vita in famiglia ai primi turbamenti; dal periodo universitario a Syracuse (dove Reed si laureò: ci teneva molto a sottolinearlo) a quello della Factory; dal rientro a casa a far l’impiegato aiutando papà dopo l’uscita dai Velvet ai fasti di “Transformer”; dal picco di vendite di “Rock’n’Roll Animal” allo schiaffo di “Metal Machine Music”; e via dicendo fino agli ultimi giorni.
Proprio nella narrazione degli ultimi anni di Reed questo benemerito volume di DeCurtis si guadagna ulteriori galloni sul campo: complice anche l’essere outsider di Reed, evita di cadere nel tristissimo catalogo di apparizioni e presenzialismi in cui di solito scivolano le biografie di artisti rock che hanno superato gli anta e si trovano ad essere icone di quello stesso mondo che un tempo combattevano (penso ad alcune biografie di Springsteen, ad esempio). Incredibile poi la delicatezza nel racconto della malattia e della morte, pur florido di dettagli, anche intimissimi.
Decisamente un libro da avere e da leggere col cuore, anche perché, al netto di qualche rarissimo errore del traduttore (i tossicodipendenti che diventano “utenti” fanno specie), è davvero ben scritto
Articolo del
05/02/2019 -
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