Sly Stone, nome d’arte di Sylvester Stewart, oggi non se lo ricorda più nessuno. Ed è un peccato. Perché fu tra i protagonisti dell’evoluzione del rock tra 1968 e 1973, il suo periodo di massimo successo, insieme ad almeno un paio di altri afroamericani, Jimi Hendrix e Billy Preston, come lui impregnati di blues e psichedelia.
Ma il suo specifico furono il funk e i solidi studi musicali, basati sui manuali del compositore colto Walter Piston, cui ricorreva spesso in fase compositiva. Stewart, texano, diventò Stone in California, benché suonasse e cantasse fin da piccolo e avesse già avuto qualche successo locale nello Stato natio. Ma fu nella zona di San Francisco che fu colpito, come il resto della sua generazione, dalla notizia della morte del presidente Kennedy, l’evento che mise in moto la contestazione giovanile che avrebbe caratterizzato il resto degli anni Sessanta, che diventò dj e cominciò a cogliere i primi successi su scala nazionale.
Fu nel Golden State che a poco a poco unì i pezzi che avrebbero dato vita alla sua stratosferica band, chiamata appunto Sly and the Family Stone, perché prima di tutto era una famiglia, una di quelle nuove famiglie hippies che si andavano costituendo per libera associazione in nome di amicizia e condivisione di ideali. C’era anche un’altra Famiglia che si aggirava in California: quella di Charles Manson. Stone, come tanti altri nel mondo dello spettacolo, lo conobbe, ovviamente a casa di Terry Melcher, il produttore figlio della grande attrice Doris Day, presso cui Manson mendicava un contratto come musicista.
A differenza di Melcher e di tanti altri (ad esempio i Beach Boys e Neil Young), Stone ne colse subito la pericolosità, ne stette lontano e forse in un’occasione salvò pure la vita al figlio della Day. Dopo un primo album che spopolò tra gli addetti ai lavori, A WHOLE NEW THING, ma non tra il pubblico che lo giudicò eccessivamente sofisticato, Stone calibrò la formula e azzeccò una serie di album e di hit che riflettevano pienamente lo spirito del tempo: "Dance To The Music" entrò in Top Ten, "Hot Fun" in the Summertime conquistò il numero 2, "Everyday People, Thank You (Falettinme Be Mice Elf Agin)" e "Family Affair" raggiunsero la vetta delle classifiche.
Lo stesso destino toccò a THERE'S A RIOT GOIN' ON, unico album a prendersi la numero uno e risposta alla domanda posta sei mesi prima da Marvin Gaye: WHAT'S GOING ON? Energia, positività, liberazione di se stessi, convinzione che la questione razziale celasse una questione sociale: queste le coordinate della musica, dei testi e della vita di Sly Stone, che sull’ultimo punto nel 1974 giunse perfino a scontrarsi in tv, allo show di Mike Douglas, con Muhammad Alì.
Ma il 1974 fu l’inizio del declino di Stone, che pure era stato uno dei dominatori di Woodstock cinque anni prima: fu l’anno in cui celebrò il suo matrimonio sul palco del Madison Square Garden di fronte a migliaia di spettatori, ma anche l’anno che vide gli ultimi suoi singoli entrare nella Hot 100, molto in basso; l’anno in cui cominciò a sentirsi superato dalla disco, che non amò mai; l’anno in cui le droghe ottenebrarono la sua brillantezza compositiva.
I decenni che seguirono furono una discesa verso l’abisso, tra fumi del crack, divorzi, tre figli da tre donne diverse, lo sperpero in sostanze di tutte le sue ricchezze, fino al punto in cui, pur continuando a frequentare i grandi nomi che lo stimavano (Jermaine Jackson, George Clinton, Bobby Womack) si ridusse a vivere in un camper su cui aveva fatto installare uno studio di registrazione, tra un soggiorno in clinica di riabilitazione e uno in galera, fino a quando, in tarda età, cominciò a essere celebrato per il suo grande passato.
Questa autobiografia, scritta in collaborazione con il giornalista Ben Greenman (ex New Yorker) e tradotta ottimamente da Alessandro Besselva Averame di Rumore, è bella, spigliata e sincera per quanto una memoria devastata possa permettere, piena di ego, ma anche di autocritica, quindi onesta. Da avere.
Articolo del
26/06/2024 -
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