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“Dov’è finita la realtà?” I “due racconti sul sopravvivere” che compongono questa ultima fatica di Marco Mancassola, giovane autore vicentino (ma vive a Londra) molto più di una promessa ormai, pongono questa domanda. Senza tentare di darvi una risposta peraltro. Questo breve ma denso e succoso libretto di 80 paginette, edito per Minimum fax da un Mancassola in libera e temporanea uscita da Mondadori, prosegue quanto già tracciato in “Qualcuno ha mentito”, suo secondo romanzo. Ovvero quanto interessa a Mancassola non è la realtà così come è comunemente accettata, ma quanto si nasconde tra le sue pieghe, l’oscuro che la accompagna a lato. Che può assumere tinte horror come in “Qualcuno ha mentito”, o rivelarsi di apparenza quotidiana, ma proprio per questo tanto più orribile, come qui. Una visionarietà inquietantemente quieta e noir affiora sempre più in Mancassola. “Eccomi condannato a imboccare, continuamente, bracci paralleli della realtà. Bracci sterili, vicoli ciechi. Deviazioni inutili, come a quei bivi dove si lascia inavvertitamente la via principale. […] dopo il primo abbaglio, riconoscevo sempre la strada principale” è scritto nel prologo, a nome non si sa di chi (dell’autore? Della voce narrante? Ma di cosa, se i due racconti hanno due voci narranti diverse?): e in fondo tutto torna. In concreto: qui c’è un prologo dove si parte – con un incipit tra i più belli che abbia mai letto – con un incidente che poi si rivela (?) un delirio dato dalla febbre alta. Si continua con un racconto “Il ventisettesimo anno”, dove si narra la storia Hans, costretto a vivere all’ombra del fratello malato di Aids. Si conclude con un altro racconto “Dov’è finita la realtà?”, dove si parla della terribile storia di Adam e dei suoi fratelli morti. Due racconti che non si concludono veramente (“Addio perfetto punto di fuga, addio luce che inonda la strada. […] addio sogno infantile di narrare sempre un’unica, definitiva, storia a lieto fine. La tua, la nostra.Quella che non ci lascia e ci conduce, sicura, verso un magnetico orizzonte.”), e sia nella fine che nel loro farsi si inviluppano, si muovono in meandri, si intrecciano tra loro e col prologo, in un sottile gioco di echi e rimandi che non va mai, ripeto mai, neppure per un attimo, a scapito della godibilità della lettura. Se dovessi fare il nome di un classico, farei quello di Philip K. Dick. Se dovessi paragonare questa scrittura a una musica, parlerei di indie pop, cupo ma sempre pop, in cui si sente echeggiare in lontananza il disperato grido di Johnny Rotten, anno Domini 1977, “there’s no future for you”, vero spartiacque (molto più dei crolli del muro di Berlino o delle Torri gemelle) tra la nostra epoca e la fiducia in “magnifiche sorte e progressive” e in spiegazioni sicure e razionali di quella precedente. È questo il senso (?) del lavoro di Mancassola: “Muori, logica. Muori coerenza, muori amore della verità.”
Articolo del
29/12/2005 -
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