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La capacità di inciderti il ventre è davvero profonda. “Lei, che nelle foto non sorrideva”, opera prima di Cinzia Bomoll, è un romanzo costruito mettendoti una mano in pancia passando da bocca e trachea. Che è poi lo stesso luogo fisico su cui fa leva la Musica: quella dei Massive Attack, dei Primus, degli Alice In Chains, degli Smashing Pumpkins e delle altre decine di bands che ascolta Ester, annotandole sul suo diario. Una delle due gemelle al centro di questa sorta di drammatico bildungsroman post (dark) moderno. L’altra, Alice (in un certo senso in chains anche lei), è la narratrice: è dal suo punto di vista – collocato quasi totalmente al di là dei fatti, dunque cronologicamente a cavallo degli stessi - che ci arriva la cronaca dell’infanzia, adolescenza e prima gioventù delle terrificanti gemelline. Che più diverse non potevano venir fuori – all’apparenza. Ma che – come tutti i gemelli – serbano un legame a dir poco midollare. “Compio gli anni. Sempre gli stessi di Alice – legge Alice in una lettera di Ester -. Che palle. Stasera esagero, dopotutto è la mia festa. Vino e coca. La migliore, tagliata meno. Fantasmagorica la torta con disegnati i Simpson. Ci ha pensato Alice, tesoro raro. Meriterebbe un po’ di coca della mia. Ma la voglio tutta per me, come ho voluto Alberto tutto per me”. So a cosa state pensando: la solita pantomima della gemella buona e di quella cattiva, tutto sesso, droga e rock ‘n’ roll. Manco per sogno: il romanzo della Bomoll ha invece l’abilità opposta di intingere le due, una bionda l’altra nera, in un’unica pasta torbida dalle quali è difficile estrarle. Ne segue – attraverso la voce di quella che riuscirà ad avere il coraggio di (soprav)vivere alla dipendenza dall’altra – le vicende, dalla scuola ai primi amori, dal sesso alla droga, dal mondo ovattato di un non-luogo fra Bologna e Modena al lavoro. Evitando accuratamente di prestare la storia a facili dicotomie, a sentenze moraliste. Il mondo di Ester e Alice è un mondo inetto, povero, un trionfo della mediocritas. Icone della quale sono i genitori delle due: una madre divenuta tale troppo presto, esaurita ed incapace. Di tutto. Un padre rapito dalla propria porciliaia, dove ascolta i Sex Pistols. E’ quello di Emilia paranoica, quello del “consumami distruggimi è un po’ che non mi annoio / aspetto un’emozione sempre più indefinibile / teatri vuoti e inutili potrebbero affollarsi / se tu ti proponessi di recitare te / Emilia Paranoica”. E anche loro non hanno alcunché di eroico. Semplicemente, carotando sensazioni ed emozioni, la Bomoll (parte del testo non può non essere autobiografica) espianta senza nessuna remora buonista una bellissima, tragica nel senso greco, fetta di vita – l’unica – trascorsa in comune fra due sorelle che sembrano una. Che sembrano due fette della stessa torta: non uguali, ma dello stesso, sanguigno sapore. E soprattutto – quasi come quando rovesciate una borsetta sul comodino - espone senza timore il contenuto delle loro menti di adolescenti emiliane a cavallo fra anni Ottanta e Novanta, fra boom e sboom, orchestrando un minutissimo ricamo sul loro metamorfico rapporto impugnando come un’ossessa un italiano monoproposizionale e sincopato da far male, perfetto per trasmettere l’anima buia che attanaglia Ester e Alice. Quasi giocando nell’invertire di volta in volta aspirazioni e desideri: l’una che vuol essere l’altra. L’altra che vuol essere l’una. Una odia, l’altra ama. Poi di nuovo, capovolgimento, dietro front. Pace. Guerra. Niente è più come pensavi, lettore. Niente è più come pensavano neanche loro. Niente è più, per Ester. Che si taglia le vene nel bagno scrostato di casa sua. Dopo che c’aveva provato – per scherzo, per paura, per sfida – tante altre volte. Ma nulla è come sembra nemmeno nella tragedia – gioco delle parti, Pirandello docet e qui sì che, in effetti, nessuno inventa più niente da una vita -: Ester è Alice. O Alice è Ester?
Articolo del
13/05/2006 -
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