|
Come dev’essere stato trovarsi a Londra nel 1977, in mezzo al fragore dell’esplosione punk? E’ una domanda che confesso di essermi posto più volte e a cui qualche risposta viene data da questo ultimo lavoro di fiction di Tony Parsons. Trattasi ovviamente del medesimo Tony Parsons che ventenne fu ingaggiato dal New Musical Express per fornire reportage dalle “prime linee” della scena punk e che, insieme alla collega coetanea (girlfriend e poi moglie) Julie Burchill, scrisse nel ‘78 “The Boy Looked At Johnny”, impudente seminale micro-trattato in cui la storia del rock and roll era reinterpretata alla luce dei più recenti sconvolgimenti. E fa piacere constatare che Parsons, nel frattempo diventato un famoso scrittore di libri di fiction (il suo “Man And Boy” è stato un best-seller in tutto il mondo), non ha affatto dimenticato il punto spazio-temporale al quale deve tutto: il 1977 londinese, appunto. “Stories We Could Tell” prende in prestito da “Absolute Beginners” l’idea di fondo di dare lo spaccato di un’epoca di transizione: se il fortunato romanzo di Colin McInnes – da cui negli anni ’80 fu tratto un film diretto da Julian Temple con, tra gli altri, Patsy Kensit e David Bowie – descriveva quel momento dei 50’s in cui affiorarono le sottoculture “teds” e “modernist”, Parsons volge com’è ovvio il proprio sguardo al “suo” tempo: all’epoca punk; e per realizzare tale ambizioso obiettivo mette insieme molti ingredienti, a mio avviso anche troppi. L’azione del romanzo ha simbolicamente luogo nell’arco della giornata in cui muore Elvis Presley, il 16 agosto 1977, e segue le vicende di tre amici, giornalisti per un magazine musicale chiamato The Paper ma dietro il quale non è difficile scorgere il New Musical Express di Parsons & Burchill: Terry, il punkettaro convinto alter ego dell’Autore, cui la nuova musica ha consentito di sfilarsi da una squallida predestinata esistenza “working class” in fabbrica; Leon, squatter politicamente impegnato di famiglia radical-chic, per cui il punk in fondo è solo una scusa per scatenare dei cambiamenti nella società; e il 17enne Ray, estimatore dei Beatles degli Stones e del classic-rock della Woodstock generation, ex-enfant prodige del The Paper ora spiazzato dai rivolgimenti in atto nella scena musicale. Come per tutti i prodotti usciti dalla penna di Parsons, si tratta di fiction di consumo dai plot e e subplot spesso grossolani. Basti ad esempio la vicenda di Ray. Il suo alquanto risibile obiettivo, nel corso di quella nottata del 16 agosto, è quello di riuscire ad ottenere assolutamente un’intervista “scoop” da John Lennon (che guarda caso si trova a passare per Londra sulla via per Tokyo…), pena l’immediato licenziamento dal The Paper, dato che il direttore considera ormai obsoleti i suoi gusti musicali: cose da prima serata su Raiuno, se ci pensate. E tuttavia, aldilà delle pecche della trama, “Stories We Could Tell” fornisce una convincente, compiuta rappresentazione dell’atmosfera che si respirava a Londra in quei giorni caotici. Parsons dà il meglio di sè quando si spinge sull’autobiografico. Sono particolarmente azzeccate le descrizioni della redazione del The Paper ovvero dell’NME con la sua vecchia e nuova guardia di cronisti (ed un indimenticabile personaggio basato sul leggendario allucinato vate del giornalismo rock inglese Nick Kent) e soprattutto quelle del locale punk “Western World” – ispirato, ritengo, al Roxy di Covent Garden – con i suoi singolari avventori e protagonisti: l'inquieta fotografa Misty, ragazza di Terry (ispirata a Julie Burchill), lo sballato punk irlandese Brainiac (leggi: Shane McGowan in seguito leader dei Pogues), la gang di hooligans Dagenham Dogs (leggi: i biechi fedelissimi fans della band punk della seconda ora Sham 69), o la demoniaca rockstar Dag Wood (ovvero: un Iggy Pop raccontato in modo non proprio lusinghiero)… E sono quasi poetiche quelle pagine in cui compare il musicista newyorkese Billy Blitzen ex membro dei mitici Lost Dolls, ovvero traducendo: Johnny Thunders ex chitarrista dei New York Dolls, una figura tenera e derelitta tartassata da manager squali, da spacciatori insensibili e dagli stessi arrivisti membri della sua band. In teoria “Stories We Could Tell” (titolo tratto da una canzone di John Sebastian del 1972 su cui Terry, Ray e Leon, benchè abbiano motivazioni differenti, concordano) vorrebbe essere un libro sull’amicizia: tema però oltremodo profondo e difficile da affrontare, e su cui Parsons non riesce a dire alcunchè di originale, tutto proteso a rincorrere le sue trame ultra-light da libro da leggere in spiaggia o in aeroporto tra un volo e l’altro. Riesce invece a dirci molto – e ci basta – sul giornalismo musicale britannico dell’epoca, sul Punk e su quell’irripetibile momento di rottura in cui la nuova ondata iniziò a perdere il suo carattere di microculto per entrare nel circuito nazionalpopolare. In questo, Tony Parsons è un maestro, anche perché - dettaglio non di poco conto - lui c’era. Cercatelo, quindi: per ora nell’edizione originale in paperback; in seguito, forse, anche in italiano. Con l’occasione, mi permetto di dare un consiglio agli eventuali traduttori: non replicate lo scempio fatto con “Man And Boy”, il cui titolo è stato reso con l’improponibile “Il cuore è un piccolo miracolo”. “Londra 1977” andrà benissimo, sempre che non ci si voglia attenere – e sarebbe meglio - all’originale titolo inglese.
Articolo del
04/06/2006 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|