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Ricognizione violenta e spietata di un'identità emotivamente marcia e corrotta sotto il profilo valoriale. Oltre che una rassegna sincopata dei cuori meccanici di quanti – paradossalmente ad anni luce dalla sua vita plastificata, trascorsa a produrre insoddisfazioni – lo circondano. Parla - molto modestamente, e per questo guadagnandosi rispetto – del senso di una vita, più che della Vita, il secondo romanzo di Andrea Mancinelli su queste colonne in ritardo. Protagonista il “solito” trentenne pubblicitario milanese che – pare cosa da poco, ma qui sta lo snodo del libro - prende coscienza del suo ruolo nell’ingranaggio micidiale del post-fordismo consumista. Dell’epoca della publicity, più che dell’advertising. E cioè del periodo storico – quello attuale – nel quale la pubblicità, più che creare bisogni, deve incastonare il prodotto x in una serrata griglia valoriale. Al di fuori della quale, c’è solo insoddisfazione. Portando avanti un parallelo – che è poi la cifra più intrigante del romanzo – fra contesto lavorativo e vicende personali, Mancinelli cerca né più né meno di esplorare a fondo il pianeta-(in)sofferenza. La dimensione per la quale – improvvisamente – quanto ci circonda ci appare in tutta la sua scintillante, e vuota chiarezza. Contraltare delle elucubrazioni tuttavia eccessivamente filosofiche dell’anonimo protagonista – sempre richiamato con sostituenti pronominali o nominali – sono i quattro/cinque personaggi che, in un certo senso, gli fanno da sponda, gli danno sostanza - infatti la voce narrante si modella e si comprende rispetto ai personaggi-sponda: Clara, misteriosa pianista dalla vita piena di sofferenza. Dylan, il figlio che rimane (erroneamente) sedotto dal magnetismo del protagonista. Emanuele, fotografo, l’amico gay e sorta di grillo parlante, un po’ uno Stefano Balli (chi la coglie la coglie…) della situazione. Talleirand e Lapo, capo e collega di scrivania, anch’essi inconsapevoli protagonisti di un mondo personale che “non è il migliore dei mondi possibili”. E’ difficile raccontare “Cuori Meccanici”, perché in realtà non succede nulla. La trama è esile ed è mero mezzo di supporto ad altre strategie narratologiche: si tratta infatti di un asettico pezzo di vita del protagonista, nel suo tran-tran quotidiano che, ad un certo punto e precipitosamente, verrà a concludersi e chiudersi con una svolta tutto sommato luminosa. Il senso del libro, infatti, sta altrove: nell’introspezione – sempre, però, sviluppata a cavallo di uno sguardo attentissimo a cogliere molteplici piccole storture della quotidianità metropolitana – che il pubblicitario stracciafighe arricchisce di giorno in giorno, mantenendosi però in un balletto di inattività che ne fa una sorta di prototipo dell’incapace (dagli altri, in realtà, inquadrato come realizzato) dei nostri tempi. Precarietà, sesso, omosessualità, sicurezza, amore, famiglia, passato e futuro, traffico ed aperitivi: in una formula, Vita e Metropoli. Quella di Mancinelli è una finestra sulla città, una fotografia (magari dell'amico Emanuele...) triste e sconfortante di un'esistenza, pian piano, succhiata nei suoi gangli vitali da un microcosmo cittadino grigio e demotivante che non fa altro che “dissipare” le vite della gente. Lasciandola come un paio di guanti appesi ad un filo, sul balcone mentre piove.
Articolo del
08/07/2006 -
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