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Soffocante. Claustrofobico. Una lingua, quella de “Il corpo e il mare”, tanto serrata e tautologica da apparire quasi artificiale. Ti toglie l’aria, il sonno, il respiro. Funzionale alla tragedia – tanto universale eppure così particolare - che vi è racchiusa all’interno. Quella di Antinea e dei suoi diciotto anni di sofferenza. Sofferenza collegata all’incomprensione, alla non-comprensione del come un padre, suo padre, potesse comportarsi – in un distorto cortocircuito di valori ed affetti - da insostenibile amante. Di un padre, quindi, che non sa essere padre, e che la considera sua esclusiva proprietà. Dei vari periodi, a partire dai dieci anni d’età, nei quali si è articolato il percorso verso la liberazione, rappresentata dal raggiungimento della maggiore età, da una Vita insostenibile. Il primo romanzo della italo-portoghese Anna Lemos si snoda tutto attorno al racconto-confessione, sviluppato in prima persona ed in sincopati scambi di battute, della diciottenne Antinea al suo antropomorfico e salvifico approdo, l’amica Livia. Un po’ madre, un po’ Amica, un po’ Sorella. Figura onnicomprensiva, considerando il balletto e marasma di insignificanti e microscopiche sagome femminili che popolano – senza nulla cogliere, inette, inutili, stupide – quei grigi diciotto anni: dalla nonna alle zie fino alle compagne di classe e alle bambinaie che, in un vortice continuo di maschere e corpi, mutano incessantemente. In realtà,“Il corpo e il mare” è molto più che un (potentissimo) diario di una orribile infanzia e poi adolescenza segnata da molestie, abusi, povertà e “secchezza” emotiva. E’ piuttosto una dissertazione - guidata in modo assai competente dalla straziante e cinica voce narrante – articolata in due filoni ben distinti ed ed individuabili. Da una parte Antinea ci parla, attraverso la mostruosa figura di un padre celebre avvocato sterile e meccanicistico, della diseducazione all’emozione. Contraltare della quale è Timur, onirica e muta fonte di rumori emotivi, primo vero ed unico amore (forse). Poi dell’incapacità, così diffusa ai nostri giorni, di sentire, provare, riconoscere e gestire produttivamente sentimenti ed emozioni. E, di conseguenza, la livellazione della propria esistenza su piani infimi e materialistici che non lasciano scampo a sudore, passione, sentimento. Dall’altra, stavolta attraverso l’affresco disarmante di se stessa, Antinea ci spiega l’Odio. Da dove nasce, come può sgorgare, la sua volontarietà. Il suo rispondere ad un piano che, senza scampo, è difensivo. C’è poco da fare: si odia perché non si è potuto amare, questo il telegramma che ci invia Antinea. Ed è infatti la sua chiave per resistere, fino al diciottesimo compleanno, ad una falsità biologica che, in fondo, non capirà mai. In mezzo, collante della lunga ed intensa tirata, il Mare. La sua passione, ma soprattutto il suo rifugio. Reale e immateriale. Metafora della Vita e, in particolare, della sua cifra di assoluta assenza di Motivazione, della sua imprevedibilità. E quindi il nuoto, l’approccio al mare, come capacità di affrontare le sofferenze dell’esistenza polimorficamente, senza mai perdersi ma giocando d’astuzia con essa. Anche se ci fa male, ci tradisce, anche se non è come dovrebbe essere. “Gelida sensualità”, ha detto Dacia Maraini. Ed è vero: nei pensieri, nei racconti prima di una bambina che non capisce, poi di un’adolescente che soffre, prende schiaffi, carezze e baci di cui non può essere destinataria, vomita, si allena all’odio e alla resistenza passiva, infine ingegna la sua salvezza, è racchiuso uno splendido percorso di autoanalisi, di ricostruzione del proprio Io. E’ racchiusa, in sostanza, una Vita che si raddrizza da sola, riuscendoci e lasciandoci con gli occhi ed il cuore sgranati. Recuperando, con le proprie forze, un Senso. Un Senso qualsiasi dopo diciotto anni che ancora aspettano il primo, vero bacio.
Articolo del
13/07/2006 -
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