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“Se togli il cane, escluso il cane, non rimane che gente assurda” cantava Rino Gaetano nel 1977. Quel pezzo – nel quale della gente si dice pure che “escluso il cane tutti gli altri son cattivi, pressochè poco disponibili, miscredenti e ortodossi di aforismi perduti nel nulla” e molto altro – tiene in piedi l’intera, scalcinata filosofia dell’omonimo libro di Carlo D’Amicis. Uno di quei romanzi che si dividono fedelmente a metà fra Cielo e Terra, fra impasto romanzesco tendente al trivial-noir e intento riflessivo che guarda, senza troppi schermi intermedi, all’analisi del nostro tempo. E’ un gioco di prospettive, questo libro: un gioco che l’ormai abilissimo D’Amicis ha certosinamente congegnato per il lettore e che consiste nell’invito ad alternare ed alterare le prospettive narrative, immergendosi ciclicamente nei punti di vista dei numerosi personaggi che ruotano attorno ad un giovane avvocato romano omosessuale incontinente economicamente distrutto e vessato da madre e fidanzato. Sua controparte, suo punto di equilibrio, pare essere il dottor Saverio Spirito (mai cognome più pregnante), un medico di quelli dotati di genetico carisma weberiano: un fedele di ferro, un fondamentalista cattolico che all’apparenza ha trascorso la vita a far del bene ai propri pazienti e che per giunta intrattiene remoti rapporti col Vaticano. Ma che in realtà (in realtà? Quale realtà: quella processuale, quella reale, quella soggettiva?) è un cocainomane come tale allucinato che finisce con l’ammazzare, gettandole nientemeno che dal Cupolone di San Pietro, moglie e figlia. Oltre che il proprio spacciatore di fiducia. Il libro, dal punto di vista del giovane avvocato Marcello Artiglio, segue a stantuffo le intricate e divertentissime vicende processuali alternandole da una parte ad un caleidoscopio di gag, situazioni ridicole e triviali, pisciate addosso e sodomie omosessuali. E dall’altra, alle tirate semi-filosofiche attraverso le quali il protagonista, con l”aiuto” degli allucinati sermoni del dottor Spirito, appunto agli "aforismi perduti nel nulla" gaetaniani – che da assistito legale via via muta terribilmente in una specie di angelo nero – rimette in discussione la sua intera e deprimente esistenza. Il bello è che lo fa in situazioni infruttuose ai fini di un’analisi serena della propria vita, lo fa spinto e a sua volta vessato, sotto il roboante avanzare di una depressione che non lo consiglia sicuramente per il meglio. Lo fa nel bel mezzo di un processo rispetto al quale lui stesso non sa quale sia l’esito da potersi considerare giusto e del quale rischia di perdere le redini. Ad ogni modo, da questa sorta di autoanalisi identitaria guidata a metà fra sonno e veglia salta fuori una selva di personaggi-fiere in mezzo ai quali il protagonista è cresciuto o coi quali ha avuto ripetutamente a che fare. E che quindi vanno rimossi, rielaborati o entrano a vario titolo nell’economia del filo-noir. Dalla madre a dir poco autistica nell’insostenibile trattamento riservato al figlio, che considera sotto molti punti di vista un essere amorfo, al fidanzato americano, Morgan, avvocato spaccatutto sicuro di sé che finisce – come tutti i super-sicuri – col commettere uno degli errori più tristi dell’intreccio, fino a caratteri minori ma dal tratteggio esilarante. Primo fra tutti, l’antropomorfico cane Dolore, alter-ego faunistico di Artiglio: un husky che mette a dura prova la pazienza del padrone, gli rompe i nervi con le sue continue fughe, ma che nella sua imprevedibilità, nelle sue strabordanti corse, sta ad incarnare meglio di ogni altro l’irrazionalità che si nasconde alcune parti della nostra vita. D’altronde, tenere un husky a Roma “è come piantare un banano a Monteverde. Come girare a Trastevere con la Mountain Bike”. Non ha senso, appunto. Poi, il consulente finanziario Spizzichini, emblema dell’Italia arruffona e truffaldina. E via con gli altri: dalle uccise allo spacciatore Khaled. Davvero, se c’è un punto forte in questo romanzo-pastiche (e ce n’è più di uno, ma questo è il punto forte), è l’abilità quasi teatrale nel dipingere i personaggi e nell’altrettanto profonda astuzia nel riproporli ciclicamente e periodicamente in un carillon allucinatorio: ognuno, anche quelli più insignificanti che intervengono per tre righe nel corso del processo, gode di un’attenzione artigiana che l’autore gli dedica perché sa che proprio da quel gioco multicolore dipende l’esito di un libro che più che sulla trama – esile e quasi pretestuosa sotto certi aspetti – si snoda appunto attorno al surriscaldato cervello di Marcello Artiglio – e alla sua vescica fiammeggiante. A quel che succede lì dentro, dove i massimi sistemi teo-sociologici, ciascuno in parte rappresentato appunto dai vari personaggi, si scontrano fra loro portando il poveretto sull’orlo del collasso psicologico. Salvo poi, evidentemente, trovare un salvifico guizzo finale. Sullo sfondo, l’attualità, Al Jazeera, il vecchio Papa morente, la giustizia italiota, un onnipresente Gigi Marzullo. Suderete freddo, divertendovi.
Articolo del
08/08/2006 -
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