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Siamo sempre lì: il momento della fruizione dev’essere attivo, stimolante e stimolato, parte integrante dell’opera? E l’opera stessa deve contenere al suo interno – o essere addirittura per sua stessa natura – una dose di imprevedibilità, di libertà (un’attiva intentio operis, per dirla in termini semiotici) che sfugga persino alla intentio auctoris, a quel che l’autore macchinava nel proprio cervello? Secondo l’inimitabile Brian Peter Gorge St. Baptiste de la Salle Eno – ma potete chiamarlo più sinteticamente Brian Eno - la risposta è di una chiarezza disarmante: sì. E lo spiega, con quel suo piglio da pontefice-del-nuovo, nell’intervista registrata nel dvd che accompagnerà – dal 25 settembre prossimo – “77 Million Paintings”, progetto a metà strada fra computer science e sperimentazione, installazione artistica e musica. In sintesi, chi acquisterà la lussuosa e limitata edizione troverà nella scatola: il dvd con l’intervista in questione, un libro di 52 pagine con un saggio di Eno nel quale l’artista racconta la propria carriera di artista visivo, riccamente illustrato con immagini inedite e – qui l’aspetto interessante - un software generativo su dischetto, eseguibile su Mac e pc. Un software che, appunto, genera automaticamente – creando dei non-quadri in continuo mutamento - dei dipinti frutto dell’intersezione e della sovrapposizione di più immagini-matrice concretamente realizzate (dunque non informatiche) e successivamente acquisite. Allo stesso modo il software processa anche la musica associata alle singole immagini-matrice, col risultato che la selezione degli elementi e la loro durata sono scelti arbitrariamente formando un numero virtualmente infinito di possibili variazioni. Anzi, arrivando alle “77 million” del titolo. Sorpassando così la nozione stessa di autore dell’opera, mettendo il fruitore praticamente nella stessa posizione di chi quel software l’ha ideato, implementato e prodotto. E dando vita a una sorta di imprevedibile Babele visiva che lo stesso compositore concepisce come “visual music” in continua evoluzione sul monitor del pc o sul televisore. “Lo schermo non è utilizzato per raccontare una storia, quel che gli schermi normalmente fanno – spiega Eno sistemato davanti ad un pauroso Mac - ma per mostrare un dipinto. Questo dipinto muta continuamente, trasformandosi in altri dipinti fino a raggiungere 77 milioni di potenziali dipinti, prodotti dalla sovrapposizione di molte immagini, così che non si riesca mai a vedere la medesima cosa due volte e, se ci si riesce, questa non durerà poi molto”. E in effetti le anticipazioni che vengono mostrate al termine dell’intervista affascinano non poco, rendendoti protagonista dal divano di casa tua in quanto superano pure il concetto di installazione tipico dell’arte contemporanea: infatti l’installazione, pur segnata da un connotato di progressività, è comunque ricorsiva o quantomeno ciclica – pensate a quelle visive, che anzi puntano sulla ciclicità. L’Intel Integrated Performance Primitives – questo il nome della diavoleria memorizzata nel disco – si configura invece come software in grado di dar vita ad un’opera che non sarà mai tale e quale a se stessa: né nell’articolazione cromatico-pittorica, né nel fondo musicale che poi fondo non è. Semplicemente perché – un po’ come quegli esperimenti di letteratura ipertestuale ormai datati ma pionieristici, si pensi a “Victory Garden” di Stuart Moulthrop nel ’91 – l’autore ha fatto si che il suo lavoro gli sfugga e, magari, gli si rivolti contro. Come dicevo all’inizio, lavori di questo tipo – nel loro fascino – sfiorano (o sforano?) la deriva interpretativa e la fuga dell’opera d’arte dal medesimo concetto di opera (prodotta da un determinato autore e fruita da un certo pubblico) viaggiando verso la definizione – forse più consona – di “lavori sperimentali” nel vero senso della parola, in quanto dispensatori di esperienze – nessuno sa se più o meno intense di quelle canonicamente artistiche, senza dubbio raggiunte secondo un percorso sostanzialmente capovolto. E’ lo stesso genioide del Suffolk a confermarlo: “Una delle cose interessanti rispetto a ciò, e all’arte generativa in generale, è che l’artista non conosce nello specifico momento cosa accadrà. Così, quando guardo lo schermo vedo cose che non ho immaginato perché non posso aver visto – e forse non potrò mai – 77 milioni di combinazioni. Ci saranno momenti unici per ogni viewer (talmente bello questo termine, lasciamolo tale e quale, n.d.r.), e l’esperienza di ogni osservatore sarà differente. E’ una fatto nuovo ed interessante”. Se poi aggiungiamo che questa pur nota e neanche troppo originale intuizione teorica – ne discutono ermeneutica e semiotica da anni – ha trovato: a) una realizzazione efficace, elementare ma stimolante, in un software realizzato ad hoc che ci dimostra come anche la pittura, oltre che la scrittura tramite l’ipertesto, possa essere RI-mediata da un successivo medium; b) un ideatore che per il suo solo curriculum musicale, pioniere della musica del nostro secolo, inventore dell’ambient, della non-musica e, già con “Music For Airports” (1978), suoni che fossero incorporati al contesto, indaga davvero per il solo gusto di sperimentare; allora, se teniamo conto di tutto ciò, “77 Million Paintings” può avere la giusta importanza “istituzionale” per diventare una pietra miliare della visual-music art, cominciando a ri-mediare seriamente i principi della semiotica e dell’arte visiva.
Articolo del
20/09/2006 -
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