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Tu che hai fatto per me, scritto senza punto interrogativo. Che significa, più o meno: “Non ti dico di no per principio, anzi. Però verifichiamo con attenzione quanto ti devo e quanto mi devi”. In termini di favori, di “servizi”, di danaro, di loschi intrallazzi, aiuti, segnalazioni, raccomandazioni. Il titolo del primo romanzo del siciliano Nicolò La Rocca vuol dire proprio questo: non c’è dubbio o timore, nella vastissima “zona grigia” che nutre ed è essa stessa la criminalità sicula. Non stimolo inibitore, in quell’arena di foschi e ciaffati burattini che ormai mette assieme ingegneri cocainomani e politici corrotti che assomigliano così tanto a politici veri, poco di buono e medio-borghesi, carabinieri con l’amante e onesti (?) cittadini. C’è solo un calcolo preciso e spietato delle convenienze e del rapporto debito-credito, a guidarli. Punto. Tutto è possibile. Ed è questo l’aspetto che ti massacra il cuore. Perché ti viene da dire che no, non può essere davvero così, in quella Sicilia malandata e piena di sudore – le prime pagine sono stilisticamente eccelse, quanto al sudore. Che mica la fascia di contiguità è così pervasiva. Che in fin dei conti a tirare le fila, poi, sono in pochi. E invece manco per niente. Con un italiano davvero fluido e pregnante, nel quale le scelte lessicali – ivi comprese quelle dialettali - sono affilate come le lame del miglior macellaio, La Rocca ci racconta una storia incasinatissima di gente che da una vita fa calcoli, pesa raccomandazioni, organizza frodi. Gente che ci vive, facendolo. E che ci fa vivere altra gente, ed altra gente ed altra gente ancora. Il sistema del clan, insomma. Oggi come sempre nutrito dal più bieco clientelismo. E che testimonia come le fila, alla fine, le tirano tutti (dalla propria parte). Una storia, insomma, di criminalità. Ma che – proprio in virtù del suo far leva su quella famigerata zona grigia – ti sembra mica una storia di criminalità: ti sembra una storia tropo vera, troppo intelaiata per non funzionare da (per carità, mica infallibile) paradigma di certo modo di vivere. In mezzo Giovanni, signorotto politico di zona con annesso faraonico e illegale progetto in mente (villaggio turistico) e il fratello Giuseppe, moderno mostro sfigurato da pustole e bubboni fin da piccolo – già solo su questo rapporto e sul mistero che c’è dietro si potrebbe costruire un altro romanzo. Fra di loro – sopra, sotto, dentro: Giacomo, l’ingegnere cocainomane che, mentre aspetta il grande salto malavitoso, addestra pitbull da combattimento. La selvatica Laura, cognata di Giovanni e nevrotico angelo custode di Giuseppe. E soprattutto – collegate al progetto che Giovanni ha in mente – due vecchi, fra cui il padre dei due, che spariscono e due preziosi appezzamenti contesi da mezza provincia. Noir esistenziale: si, è giusto. A patto che si dica che è l’elemento esistenziale che nutre narrativamente quello noir, e non il contrario. A partire dallo straziante ed irritante punto di vista che, pur alla terza persona, si vede e si sente pendere all’altezza degli occhi di Giuseppe, unico angolo pulito – eppure, anche lui, dentro al magma – della storia. E’ un libro pesante, nel senso che è “di valore”. Denuncia narrando in fin dei conti senza voler denunciare alcunché. Raccontando senza sperimentare granché ma narrando argutamente, riuscendo a disegnarti (come se ce lo avessi lì davanti, La Rocca, con matita e foglio) la ragnatela sconfortante e puzzolente dei casini di mezza isola, e forse pure di mezza Italia. E l’elemento noir – che, come ho detto, è manovrato da quello esistenziale, col quale compone un inedito e credibile intreccio – si mantiene sempre piuttosto fuligginoso. Se questo è l’esordio. Mozzica.
Articolo del
28/09/2006 -
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