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Rilassatevi. E’ questo il grido di battaglia di Gerry il comico. All’anagrafe: Geremia Bellotto, cultore di Jerry Lewis e Henri Bergson. Attorucolo di sexy-commedie all’italiana, prima. Poi protagonista di proprie, triviali pellicole passate alla storia come Gerry’s. Infine, demiurgo del pubblico della tv commerciale grazie a due trasmissioni seminali: l’incasinatissimo “Crazy Show” e lo smielato “Il mago dell’amore”. Quello che aveva un unico obiettivo, nella vita: far ridere gli altri. Quello con una faccia di gomma che poteva scolpirci qualsiasi espressione. Quello che odia le profumere (cioè le donne che ti ci fanno credere e poi ti mollano sul più bello): e che, nonostante ciò, ne ha collezionate davvero molte. Ma che tante altre, invece, ne ha castigate. Altrochè. Le ama le femmine, Gerry. E’ un suo dogma, quello di non lasciarne scappare nemmeno una, che poi si sa mai magari ci stava. Gerry Bellotto: quello che, davvero, pensi: “Ma no, dai, non può essere. Mica è davvero così”. Il primo romanzo di Antonio Iovane è una spietata cronistoria degli ultimi cinquant’anni della nostra italietta analizzati inforcando le lenti (sfocatissime eppure così chirurgiche) di Gerry Bellotto, personaggio polisemico che tanti e tanti rimandi alla realtà ti fa nascere in testa. Un comico di quelli dozzinali, cafoni – almeno, così dice la critica. E che però ha i tempi, la battuta, la faccia: fa ridere, semplicemente. Quindi “Ti credevo più romantico”, a livello superficiale, è nient’altro che una divertentissima pseudo-biografia del comico portata avanti, secondo uno stratagemma narrativo, da una voce narrante che si capisce, da subito, essere quella del suo biografo ufficiale. Il quale si muove scortato, nella sua cronaca, dal “Memoriale del comico”: decine di quaderni compilati a mano da Gerry Bellotto. In cui è racchiusa l’essenza del bellottismo, modus vivendi (e soprattutto cogitandi) che ha rappresentato la chiave fondamentale del successo (pur alterno e burrascoso) del protagonista. E l’arma con la quale Gerry ha lasciato scorrere intorno a sé il Mondo intero: tutto quello che accadeva fuori dal suo microcosmo di battute, scurrili equilibrismi e…”rilassatevi”. Questo, dicevo, in superficie. Perché poi il romanzo, quello vero, quello che al di là della risata facile, dell’altrettanto facile riprovazione per il disgraziato stile di vita di Gerry Bellotto, per l’acuta commistione fantasia/realtà, sta sotto. Sta proprio nel riuscire a calzarli acutamente, gli occhiali di Gerry Bellotto. Ricavandone così un duplice tornaconto, dalle sue vicende. Da una parte, si riesce a ripercorrere rapidamente (sebbene un po’ troppo, ma non è certo quello il fulcro della narrazione) certe vicende italiote cogliendole sotto prospettive stranianti e preoccupanti. Gerry è l’emblema dell’uomo qualunque, del disadattato al confronto politico-civile, un idiota in termini di attualità: eppure, è talmente estremo in questa sua “qualità”, da risultare attendibile in quel vede-sente-pensa-dice. Dall’altra – e qui sta il bello - il romanzo enuclea con una chiarezza imbarazzante il cancro del giorno d’oggi: la nascita, l’incubazione e la prorompente scalata dell’odierna mediocritas che attanaglia il nostro paese. Perché Gerry Bellotto, alla fine, con le sue trasmissioni piene di lustrini e carne vive a disposizione dello spettatore, piene di battute ridicole e doppisensi nauseanti, piene di tutto, troppo piene e, ancora, col suo banalissimo stile di vita corredato da mitici pompini e droghe e alcol e vendette, con le sue quattro certezze da autodidatta acuto ma inesperto, con i rapporti che intrattiene e con le persone che incontra; ecco, con tutto ciò, ha inventato il Nulla in tv, ha dato ai telespettatori quel che volevano: il Vuoto, da corredare alla loro stanchezza la sera, sul divano. Niente più. Questo si, sapendolo. Protoideologo della trash-tv e dell’inizio della marcescenza nazional-televisiva, Gerry diventa ricco sfondato. Ricchissimo. E cade nel puntuale circolo vizioso: coca, demotivazione, incubi da un passato segnato dal primario, un padre ipocrita, e da una madre debole. Finisce a vender padelle. Che manco Mastrota. Nessuno lo ascolta. Manda affanculo il suo storico manager (ex sessantottino), Ascanio. Cova vendetta, cova un ultimo grandioso e geniale atto d’immagine. Per riuscire nuovamente ad imporre la sua figura. Per recuperare il suo pubblico: lo ha inventato lui, ma intanto quello Gerry se l’è bello che dimenticato. “Ti credevo più romantico” è scritto con una facilità disarmante: gustosissimo. Intrecciato al punto giusto: non troppo, non è lì lo snodo. Piuttosto – e per quanto l’intenzione dell’autore sia, il più delle volte, “fallace” – è forse uno degli unici romanzi degli ultimi tempi che, fra Nina Simone e il picchiatello, riesce a farti sorridere inorridendo: non di Gerry, ma di ciò che i vari Gerry nostrani hanno avuto il merito e la colpa di costruire attorno a me, a voi, a tutti: la nostra mediocre società di lustrini e carne un-tanto-al-chilo. Sempre, e comunque, senza cattive intenzioni: solo per far ridere. Sia mai.
Articolo del
27/10/2006 -
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