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Questo è un libro davvero prezioso. Non solo perché ricostruisce un’avventura musicale tra le più importanti della storia del rock, quella del post-punk e del suo impossibile assalto al cielo nei sette anni tra 1978 e 1984, ma perché attraverso di essa riesce a ricostruire l’affresco di un’epoca e dei suoi luoghi principe, nonché a svelarne il senso profondo. Simon Reynolds è considerato il più grande critico musicale vivente. Solo questo libro basterebbe a meritargli il titolo. Classe 1963, s’è fatto un nome nei primi anni 80 sulle pagine del Melody Maker, uno dei tre più importanti magazine musicali inglesi, chiuso nel 2000. Un testimone diretto, insomma. Che in 720 pagine – mai pesanti, mai noiose, perfino quando per un attimo, e solo un attimo, ci si smarrisce nella selva dei nomi – racconta del culo che ebbero lui e i suoi coetanei inglesi e americani a trovarsi nel posto giusto al momenti giusto: nella seconda età dell’oro del rock, che produsse una messe di innovazioni musicali che fece fare un balzo in avanti al rock paragonabile solo a quello compiuto dal 63 al 67. Un periodo in cui non si trovavano ristampe di vecchi dischi, semplicemente perché la roba che usciva era così tanta e così buona che a nessuno sarebbe mai venuto in mente di comprare qualcosa di vecchio. Una delle tesi del libro è che se il punk rappresentò un tentativo di sovvertimento dell’establishment musicale dei 70, esso fallì proprio perché in realtà predicava il ritorno alle radici del rock. Il post-punk, invece, mise in discussione tutto, dalla forma canzone ai padri nobili cui rifarsi, che esulavano spesso dagli stretti canoni rock’n’roll o non ne erano neppure lontani parenti. In questo senso Reynolds definisce il post-punk (o new wave, se’l termine più v’aggrada) come una forma di progressive rock che, abbandonate le pretenziosità classicheggianti e pompose dei supergruppi freakkettoni dei 70, portò l’avanguardia a livello di massa, facendo produrre alle major e vendendo milionate di dischi che oggi sarebbero appannaggio di qualche oscura indie label. Il post-punk è la diffusione a livello di massa di idee radicali, perlomeno in campo musicale. Da lì nasce gran parte della musica che s’ascolta oggi, se è vero, come è vero, per dirne una, che dei due gruppi rock più mainstream che oggi esistano, i Red Hot Chili Peppers erano fans sfegatati dei dimenticati Wire e della loro idea di avant-funk, tanto da chiamare a produrre il loro primo album Andy Gill, ex chitarrista proprio dei Wire; e gli U2 svilupparono e resero popolare alle masse il suono epico da stadio inventato dai Joy Division. Post-punk come post-moderno, per il saccheggio consapevole e programmatico di tutte le avanguardie artistiche novecentesche, complice il nobilissimo padre Bowie, come spostamento del baricentro del rock dall’America, vista come nemico musicale, a una Neu Europa il cui strumento simbolo era il synth e suonava la chitarra in modo volutamente distante dalla tradizione rock. Tanto che pure le band Usa guardavano all’Europa come patria ideale e talvolta (come i Tuxedomoon) finirono per accasarcisi. Post-punk come promozione di un microcapitalismo corporativo: la nascita delle prime etichette veramente indie (Rough Trade, Mute…) e il ruolo dei negozi come punti di diffusione della nuova musica. Come rifiuto del facile sloganismo politico perché antiestetico, come scoperta della politicità del quotidiano, come costruzione di un nuovo mondo opposto al disperato “Destroy” punk. Un’epoca in cui il giornalismo assurge a metaarte capace di promuovere la formazione di nuovi movimenti musicali. In cui la provincia è più rivoluzionaria del centro: Sheffield, Manchester, Liverpool, Akron, Cleveland, Glasgow, Edimburgo, Leeds non sono nomi di città, ma evocazioni di mondi. Reynolds riesce a raccontarci tutto questo in un saggio avvincente come un romanzo giallo. Perfino quando scende ad analizzare il ruolo fondamentale del flanger nell’evoluzione del post-punk o svela la sessuofobia di mod e ska. Un libro più che prezioso. Emozionante.
Articolo del
05/03/2007 -
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