“Ai tempi di Batista Cuba era il casino degli americani. Adesso è il casino del mondo”.
Ormai aspetto gli scritti e i romanzi di Alejandro Torreguitart Ruiz come fossero quelli di un amico di sangue. Col quale posso rimanere in contatto soltanto grazie, appunto, a quanto mette su carta. C’è una specie di ansia, ogni volta che so che qualcosa di suo è arrivato nelle mani del buon Gordiano Lupi, che ne cura l’edizione italiana. E’ la nuova generazione degli oppositori di Fidel, quella di Alejandro. Una generazione ormai disincantata fino al midollo osseo, che tira avanti a campare in un grigiore non più montante, ormai. Ma definitivo e senza appello.
Il punto è che anche in questo “Cuba Particular-Sesso all’Avana” – fra cazzi e jineteras, avventure e delusioni, sogni e stolte speranze – Alejandro riesce come nessun’altro a passare una sensazione incredibilmente disarmante: l’immobilismo totale. Quel misto di decrepitezza, assenza definitiva di prospettive e impossibilità di sviluppo sociale in cui Cuba e tutti i cubani ristagnano da anni – compresi gli eufemistici “nuovi ricchi” di Fidel. In particolare la Cuba del “periodo especial” iniziato nel 1991 e, a ben leggere, mai finito.
Dopo le storie delle jineteras e dei machi di carta, Alejandro entra ancora più nella cellula fondamentale della sopravvivenza cubana: la villa particular. Nient’altro che una casa privata le cui camere vengono affittate in ogni momento dell’anno – tranne in ottobre - dai proprietari ai turisti che viaggiano fuori dal circuito istituzionale. Quelli che non cercano piscine e grandi alberghi. Quelli che rischiano. Quelli che cercano sesso, sesso, sesso. Che cercano le quindicenni – e i quindicenni - mulatte. “Tutti maiali”. Tutti con un sacco di dollari – ma nemmeno tanti – da utilizzare per autocelebrare il proprio ego in una guerra fra poveri.
Dentro alla villa di calle veintitrés, quartiere Nueva Vedado, c’è Isabel, ex giornalista di regime. Oggi ridotta a matrona e tenutaria di un casino (a suo modo: un casino ordinato e umanamente caldo). Affianco a lei, Paco: suo secondo uomo. La ama, ed ha accettato Anabel, la bimba avuta dal precedente matrimonio. Paco di fatto manda avanti la casa: cucina al ritmo di Willy Chirino e José Feliciano, fa da tassista agli ospiti, oltre al lavoro grigio con le prostitute che c’è da fare. Intorno a loro – dentro di loro, alle loro teste e ai loro corpi – si aggirano personaggi di ogni genere, avventurieri del sesso, turisti per modo di dire. Luis, “il Portoghese”, che ama le minorenni. Carlo, il frocio che ama i minorenni. El mosquito, Roberto, un italiano tirchio che - quando viene a Cuba – dice che Digna è la sua novia. Jean-Paul, un francese che comprerebbe tutto, pure l’aria. Mario e Luca. Franco. Italiani, francesi, portoghesi. Il mondo in cerca di culi sodi e donne bagnate.
Pare che Alejandro, nel pur minimo comun denominatore del sesso facile e a pagamento, abbia inteso spennellare le differenti sfumature che ogni vicenda può assumere. Finendo con lo scrivere un libro in cui italiani, francesi e portoghesi c’entrano poco, quasi nulla. Sono niente più che una nefasta conseguenza del cascante sistema di Fidel. Al contrario, Torreguitart Ruiz è profondamente cubano. Nel suo stile veloce ci sono Digna e Manuela. Nori e Clara. Elaide e le quindicenni. Ti dà in maniera esauriente, come le foto di Wim Wenders, la Cuba di oggi. Le strade abbandonate da vent’anni, el amarillo (il vigile a bordo strada che regola i passaggi), il paesaggio se possibile ancor più disagiato dell’Oriente (Trinidad), gli avvoltoi, l’Avana vecchia. E poi, certo: le jineteras, le prostitute – badate però che jineterismo, a Cuba, ha una connotazione per più ampia: designa tutte quelle attività illegali o semi-legali connesse al denaro dei turisti. E i loro sogni, la loro femminilità distrutta dal non avere altra risorsa per vivere che vendersi. Punto. E che però, a questa risorsa, legano spesso – e sbagliando, quasi sempre – la speranza di fuggire da Cuba. Scappare, anche con un aguzzino o un maiale di cliente. Verso l’Europa.
Ne esce un libro triste che spacca il cuore. O meglio: melanconico. Scritto a tempo di son, salsa e merengue. Letto immaginandosi Paco che balla leggero a tempo dei successi controrivolzionari Cuba Libre e El Collar de Clodomiro da una camera all’altra, Isabel che fuma, Anabel che va a scuola. E i turisti che scopano – e si che Ruiz, come sempre, ci va giù durissimo, in quelle parti. E perché non dovrebbe farlo? Un libro che al fortissimo sentimento di immobilismo ne lega, pagina dopo pagina, un altro ancor più straziante e legato a doppio filo: quello dell’eterno ritorno, del circolo vizioso. Di una stagione che finisce, e di un’altra che inizierà assolutamente uguale alla precedente.
“C’è poco di nuovo, Digna. Finisce un anno e ne comincia un altro. Tutto resta uguale, in fondo”.
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Articolo del
20/06/2007 -
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