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Tiziano Tarli è il cantante e chitarrista degli Sweepers, band romana che fonde grunge e beat. E, nonostante abbia trentadue anni, la sua passione lo ha spinto a realizzare uno dei (pochi) libri italiani realizzati sull’argomento beat, già uscito due anni fa, sempre per Castelvecchi, e ora riedito in nuova edizione “riveduta e ampliata”. Il guaio peggiore quando si parla di beat, è proprio che ne esistono poche trattazioni “storico-scientifiche”: e così un periodo chiave per l’evoluzione del rock italiano è affidato solo all’aneddotica (che è gustosa, ma sempre parziale) o alla glorificazione acritica e nostalgica di chi ricorda, insieme al periodo, la propria perduta beata gioventù. Il pregio più notevole di questo corposo (287 pagine) ma agile libretto è proprio quello di riuscire a delineare un omogeneo quadro culturale, generazionale, musicale e pure filosofico, in cui è nato, cresciuto e morto il beat italiano. Grazie a Dio, questo non è solo il libro del Piper di Roma: ma dando il giusto peso all’esperienza del locale simbolo del beat italiano, indaga con l’accuratezza permessa a un manuale introduttivo l’enorme mondo del beat di provincia. Perché proprio questa è una delle verità nascoste che emergono dall’opera di Tarli: le metropoli, Milano e Roma, furono certamente le catalizzatrici del movimento, ma questo nasce forse prima in provincia, ed è qui che vive alcune delle sue esperienze più radicali e\o originali. Si indagano le influenze della cosiddetta “beat generation” (scrittori e poeti americani come Jack Kerouac e Allen Ginsberg), vecchia però di 10 anni rispetto al beat italiano. Si chiarisce la distinzione netta tra beat e yé-yé, ad esso precedente di qualche anno e i cui campioni (Rita Pavone e Gianni Morandi) erano invisi ai giovani beat (l’avreste mai detto?). Si dà spazio a quell’originale esperienza italiana che fu la messa beat, chiarendone le origini culturali e musicali (l’esempio delle messe africane), la nascita in provincia (Marche e Sardegna), la primogenitura rispetto ad esperienza estere molto più tarde (gli Electric Prunes): un ottimo esempio di come un’esperienza periferica come quella italiana possa comunque essere in grado di cavar fuori dal cappello dei tratti originali. C’è l’esperienza radicale dei beat di Milano e di “Barbonia City”, ci sono le interviste ai vincitori (Renzo Arbore, che si pregia di aver inventato il termine “beat”, in effetti usato solo da noi e in Francia; Dario Salvatori; Franz Di Cioccio), cioè a quelli che sono usciti vivi dagli anni 60, ma anche ai vinti (Franco Capovilla dei Delfini, Mauro Boccardo dei Bit-Nik, Angelo Ravasini dei Corvi), cioè quelli che o sono scesi dal treno con la fine dei Sixties o quel treno son sempre stati lì lì per prenderlo ma non ce l’han fatta mai. In definitiva, bel libro, complimenti. E curioso il cd allegato, dedicato alle messe beat. Bravo Tarli.
Articolo del
17/09/2007 -
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