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Non so. Veronica Raimo è senz’altro in gamba e sveglia. E punto. Bombarda i suoi (lunghi) periodi con quel sorriso giocondo a metà fra il cinismo più deprecabile ed improvvisi ma spiazzanti squarci di verità universali. Solo che in questo suo romanzo d’esordio, “Il dolore secondo Matteo”, finisce col caricare in maniera davvero insopportabile il personaggio principale, il Matteo del titolo. Sputando fuori un mal riuscito e sgangherato antieroe della modernità. Ragiona bene, il trentenne protagonista. Ma ragiona troppo. Pensa bene. Ma pensa troppo. Tanto poco comunica con chi dovrebbe comunicare, quanto subissa il povero lettore di teorie, argomentazioni e approfondimenti pseudo-filosofici dei quali farebbe volentieri a meno. Non è cinico, ci dice per sua stessa ammissione: è proprio incapace di avvertire dolore. Lo ha scoperto da ragazzino. E, quasi in un circolo vizioso – la piattaforma del romanzo mi ricorda tanto il Moravia saggista de “L’uomo come fine” – più ci sta immerso, e meno lo palpa. Al contrario: quasi se ne nutre.
L’intreccio è deboluccio: Matteo, al ritorno da un viaggio in Puglia (le ragioni del viaggio sarebbero già improbabili di per sé stesse), incontra una specie di bohémien gay, Filippo. Che gli offre di lavorare con lui, presso l’azienda di pompe funebri di famiglia dove è rientrato dopo qualche anno di peregrinazioni mitteleuropee nelle quali si è guadagnato da vivere prostituendosi. Matteo accetta di parcheggiare senza troppi problemi la sua vita di neolaureato in Scienze Politiche manco dovesse comperare un pacchetto di sigarette. Diventa una specie di amante (solo un pompino la mattina) di Filippo.
Ad un certo punto – anzi: ad un certo morto – l’equilibrio ormonale viene distrutto da Claudia: il padre è morto schiacciato da un tavolo. E’ una sadomasochista persa, ma tuttavia finta. In fondo – è Matteo a farcelo scoprire – è una conformista come le altre. Ed oltre tutto è fidanzatissima. Il rapporto con Matteo è lungo, devastante – per lei, ovviamente – ma tutto sommato “pronto uso”. Tanto veloce nel nascere come nel morire. Filippo, intanto, soffre. E Matteo rimane sospeso fra questi due cartteri così deboli e flaccidi che gli offrono la loro sofferenza. Qui – nella parte più propriamente finto-dark del romanzo – la Raimo davvero (si) esalta: alcuni quadri dei vari incontri fra Matteo e Claudia escono fuori perfetti ed esilaranti, con un’orchestrazione deliziosa fra trash e sarcasmo sempre con quel sorriso frammisto di tristezza e disincanto. Così come il quadro finale “sfascia tutto”, messo in scena nei panni del fidanzato di Claudia, Alberto, vale il prezzo del libro.
Il punto è che poi il romanzo va a sbattere contro sé stesso. Non finisce. Non si chiude. Rimane sospeso in un epilogo insoddisfacente. Fino a ridursi ad una sorta di Vangelo apocrifo – ma d’altronde lo stesso titolo la dice lunga in questo senso – sull’interpretazione del dolore nel mondo contemporaneo. Oltre tutto, la Raimo sembra ansiosa di ingegnare ad ogni passaggio – quasi ad ogni riga – un cortocircuito sarcastico-semiotico. Non c’è tratto che non sia appesantito dalle continue digressioni saputelle di Matteo, che ci spiega per filo e per segno le verità del mondo manco fosse, davvero, un contro-evangelista del nostro tempo. Spaziando come un tuttologo dalle biondine al sesso, dalle donne al lavoro, dall’università alla psicologia. Rimane in bocca il sapore del troppo che stroppia – non a caso il romanzo è diviso in tantissimi micro-capitoli: che sia stato un artificio dell’ultimo minuto? E di un esordio tarato con un po’ troppo autocompiacimento.
Articolo del
25/09/2007 -
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