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“Italian fiction” stilisticamente è un romanzo figlio dei cannibali anni 90: ci trovi l’abolizione della punteggiatura di Aldo Nove con la prosa che si fa canto (sull’esempio, a sua volta, di Nanni Balestrini), le peripezie paradossali del primo Ammaniti (quello di “Fango” e “Branchie”), le esplosioni di violenza della prima Santacroce (“Fluo”, “Destroy”, “Luminal”). Ma “Italian fiction” non è un romanzo cannibale: non recita nostalgie infantili ed adolescenziali, non si fa elegia del vuoto della vita all’epoca dei centri commerciali, canto della mercificazione dell’esistente dietro a una griffe, né espressione di un disagio generazionale che cerca punti di rottura nel Moloch gommoso dell’esistente. No, “Italian fiction” utilizza gli strumenti linguistici e narrativi dei cannibali per comporre un affresco del vuoto cosmico, esistenziale, generazionale (ma di tutte le generazioni, dai bambini agli ultraottantenni) dell’Italia di oggi, senescente e geriatrica non per età ma per incapacità di rinnovarsi, cappa di piombo sui destini delle nostre vite come i cieli grigi di certe giornate invernali padane. E proprio qui, nel triangolo tra la discoteca “Number One” di Brescia (esiste davvero), una Verona evocata sullo sfondo, il piccolo paese di Vigasio (che esiste davvero, ma in quanti l’abbiamo visto?) Michele Vaccari ambienta la situazione iniziale della sua storia, che vede incrociarsi i destini di due hardcore warriors naziskin, Antonio e Guido, a quelli di Elena, “forse la miglior cosplay d’Italia” (cosplay è chi si traveste come il proprio personaggio manga preferito). Durante un tranquillo weekend padano, tra un sabato notte e una domenica mattina di Carnevale, i tre si incontrano e i “fasci” rapiscono la cosplay, cominciando una fuga disperata attraverso Germania e Danimarca per raggiungere Appearence, il rave definitivo che si trova da qualche parte in Svezia. È in fuga anche Morigero Combutta, padre di Guido, che ha appena accoppato sua moglie Giovanna e che assume l’identità di Mal. Dietro a loro, la famiglia di Elena e la polizia di Vigasio; in mezzo, un pulmino di ciellini e un pullman di pensionati. Mi fermo qui. Questa folle corsa si struttura come in un paesaggio anonimo e vuoto, biblicamente senza dettagli (a parte Vigasio, ma come dicevo, chi l’ha mai vista?), alludendo al valore di parabola contemporanea della vicenda. Che contemporaneamente si dipana in tre parti, come nella tragedia greca, intervallate e introdotte da testi di canzoni mainstream (da Umberto Balsamo a Renato Zero) e non solo, frammenti di sintassi culturale desemantizzata, coriandoli di cultura pop eletti ad esegesi del mondo, che svolgono la funzione del coro. Gli stessi personaggi sono simbolici: Guido warrior allude al Duce (e poi guida la macchina); Morigero “Mal” Combutta è “morigero”, cioè portatore del Mos, del costume tradizionale di vita, mentre soprannome e cognome alludono al travestimento televisivo tutto lustrini e apparenza della realtà criminale (con cui il vero Mal non c’entra nulla) di un’Italia vecchia e criminogena che non vuole morire e anzi domina sempre più; Elena, poi, allude a quella omerica. Eccetera. Tutti corrono verso il nulla, ma solo pochi arrivano: quelli che meno pensano e più sono apparenza. Lo scopo: diventare quello che si vorrebbe essere, essere amati per quello che non si è. Trionfo dell’apparenza che diventa sostanza, con catarsi finale e intervento di un deus ex machina che promettono palingenesi e sedizione. Grande romanzo. Politico.
Articolo del
26/10/2007 -
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