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Manuel Graziani scrive di musica e libri per Rumore, Sonic, Mente locale. Ma da un po’ di tempo scrive anche libri: dopo la lontana raccolta di racconti “I due pusher” (1997) e la biografia di "Giuseppe Caporale. Un veterinario al servizio dell’uomo” (2005), arriva ora questo agile romanzo, sessantuno paginette in cui si dipanano le vicende di un sabato sera e una domenica mattina qualunque in una qualunque cittadina della profonda provincia italiana. Anche il protagonista è uno qualunque: senza nome, Co.co.co. in un ente pubblico, trentaduenne, costretto a vivere ancora con papà e mammà e a girare su un Ciao azzurro del 75, causa stipendio non esattamente faraonico, al sabato sera si sfonda di birre al pub almeno per un paio d’orette, aspettando gli amici, visto “che non c’è niente di organizzato”. Uno come tanti, insomma, se non fosse per la sua insana passione per il garage-punk, genere non proprio alla moda, e quindi in grado di salvare la vita a chi affonda nella vita stagnante di provincia, perché in grado di fornire due giustificazioni esistenziali: il possesso di un gusto che eleva rispetto alla media dei compaesani, magari guadagnandosene l’incomprensione e/o lo scherno, conferme della giustezza della propria scelta; l’opposizione alla deriva modaiola che ingloba il mondo intero, metropoli e centro comprese. È ovvio che le cose non stanno proprio così. Anzi, per niente. Ma questo è sicuramente quello che scatta nell’inconscio di chi è condannato a vivere nella “provincia di una vita / che dovrà pur finire”, come cantava Claudio Lolli nel 1975. E d’altronde, era a questo che si riferiva Lester Bangs quando parlava lucidamente della provincia come di un “serbatoio della purezza rock’n’roll”. Fatto sta che, tra schivare ex-compagni di scuola davvero troppo normaloidi, riunirsi alla propria microcompagnia, l’incontro con il parvenu tampinatore di turno, alla fine, tra una canna e una striscia di coca, la Vita irrompe nel quieto tran tran di provincia. E irrompe male, non come ce la si aspettava, tanto da rischiare di ribaltare le sicurezze ataviche di un vitellone per caso, in realtà per nulla tale, ma talmente impreparato alla vita reale da scambiare l’attrazione sessuale per un innamoramento vero e proprio e da voler costringere i comportamenti degli altri in qualche cliché politically correct. Ma il giorno dopo, tutto si ricompone, riassorbito nel ventre molle e dolce della solite cose: la mamma che annuncia la sveglia, il pranzo coi genitori, altrettanto incapaci di cogliere alcunché nei figli, un giro al bar per le confidenze con gli amici. Illuminante il lungo dialogo su “chi è Jimmy?”, vero compendio di cultura rock da quiz di Mike anni 70. Apparentemente pesante e fuori luogo, serve invece a far rientrare il protagonista nella tranquilla vita di tutti i giorni. Non tutto è perfetto, in “La mia banda suona il (punk) rock”: dialoghi e pensieri sono a volte un po’ didascalici, ad esempio, e poco naturali. Ma che la stoffa ci sia, è confermato dall’impianto del racconto e da certi squarci notevoli: tanto per dire, i ricordi dei giochi d’infanzia in questa cittadina un po’ Teramo, un po’ L’Aquila, un po’ Pescara (i riferimenti topografici sono mischiati, ma tutti abruzzesi come l’autore), e le tre righe finali, semplicemente raggelanti nella loro bellezza.
Articolo del
05/11/2007 -
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