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“I produttori di opere d’arte significative non sono semidei, bensì uomini fallibili, spesso nevrotici e minorati” (Theodor Adorno): il pensiero di Adorno sintetizza al meglio quel mondo di miseria, genialità, ribellione e anticonformismo all’interno del quale nacque l’universo multiforme del Jazz. Prima di parlare del libro, non posso fare a meno di stendere qualche riga di premessa: letteratura e musica sono sorelle, il filo che le lega parte da molto lontano, dal mondo antico; nel medioevo arrivano poi i bardi e i menestrelli, che uniranno indissolubilmente poesia e musica, accompagnando spesso le loro narrazioni con uno strumento. Nell’epoca moderna si svilupperanno invece altre forme di interazione: l’opera lirica, il poema sinfonico, il teatro-canzone e altre ancora. Per quanto riguarda la popular music, definizione peraltro generalista, di esempi ce ne sono in quantità. Due per tutti: il Bob Dylan autore di testi incisivi e politicamente impegnati, o il Leonard Cohen raffinato narratore, ma anche Nick Cave, Lou Reed, Jim Morrison, e per gli italiani Enrico Brizzi, Paolo Conte o Fabrizio De Andrè, solo per citarne alcuni. Il Jazz merita però un discorso a parte. Nato essenzialmente come l’intreccio di culture considerate da sempre agli antipodi (quella “colta” occidentale e quella “rurale” africana) il Jazz ha finito, col passare dei decenni, per influenzare a livello formale ogni nuovo meccanismo della musica leggera, per cui si può tranquillamente affermare che, ad esempio, il Free Jazz, il Rock e la Discomusic hanno una comune matrice nella cultura musicale afromericana. Leggiamo allora questo “Natura morta con custodia di sax” e ci troviamo davanti ad un bivio: riporre il libro sulla mensola, ignorando il suo messaggio, o soffermarsi sui suoi significati. Spero vivamente che optiate per questa seconda soluzione, perché ne vale veramente la pena: il libro è talmente bello che vi prende immediatamente, vi trasporta in un’atmosfera in bianco e nero, sostenuta da uno stile filmico che esalta le inquadrature e i tagli sui personaggi. La camera virtuale di Dyer indugia sui protagonisti di queste storie, figli perduti nei meandri della loro coscienza (Thelonius Monk), rigetatti da una società razzista (Lester Young), uomini incapaci di accettare se stessi e il loro volto come testimonianza del trascorrere inesorabile del tempo (Chet Baker). Stesi ai margini della vita, simboli di una musica collocata tra il “colto” e l’ “effimero”, questi personaggi del Jazz vagano in un limbo che non ne fa dei reietti, ma degli uomini da sempre in lotta per le loro idee, alla ricerca di nuovi suoni e nuove sensazioni, colpevoli solo di essere se stessi anche quando abbracciano le strade dell’alcool, dell’eroina, dei tanti amori sbagliati. A simbolo di questa loro “innocenza maledetta” c’è la foto di copertina: ritrae un cappello, la custodia di un sax, uno spartito e una sigaretta ancora accesa: è il ritratto di Lester Young, uno dei più grandi sassofonisti di sempre. Ma dov’è finito il soggetto? Forse dopo tante note il volto di un uomo smette di essere “soggetto”, sono gli oggetti che gli sono appartenuti ad essere ricordati, venerati, ritratti. Forse il senso della vita è tutto qui: noi non siano ciò che siamo, ma siamo ciò che lasciamo agli altri, ciò che gli altri ricordano di noi.
Articolo del
09/06/2003 -
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