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Poteva essere qualcosa di straordinario: una finestra aperta a 360 gradi su quegli artisti – e sono tanti – che pur avendo realizzato della musica eccellente (e, a volte, “seminale”) per vari motivi sono rimasti sempre al di sotto del radar, vendendo pochissimi dischi, oggetto di culto per pochi. Poteva. E per alcuni versi quest’ultima Rough Guide sulla “migliore musica che non avete mai ascoltato” mantiene la sua promessa: i tanti micro-saggi che lo compongono sono ben scritti e ottimamente assemblati, come del resto nella splendida tradizione Rough Guide, sinonimo di qualità e chiarezza. E allora? Il problema, per mutuare dal gergo calcistico, probabilmente “sta nel manico”. Ovvero nella persona che si è dato la pena di scrivere la maggior parte dell’opera, quel Nigel Williamson che ricordiamo come splendido biografo di Dylan (l’essenziale “Rough Guide” sul bardo di Hibbing è sua) e di Neil Young, e raffinato conoscitore del blues (sua anche la bellissima “Rough Guide To The Blues”), ma allo stesso tempo uno che, dall’alto dei suoi venerandi 54 anni di età, ha sempre dimostrato di avere una sconfinata passione per gli anni ‘60 e ‘70 ma (troppo) poco tempo da dedicare alle decadi più recenti. E questa inclinazione di Williamson – qui coadiuvato dai colleghi David Smyth e Robert Webb - si riflette purtroppo sulla trattazione in oggetto. Viene dato largo – e sacrosanto, beninteso - spazio a remoti misconosciuti folk-singers (Ann Briggs, Vashti Bunyan, Karen Dalton, Linda Perhacs, Trees), a trascurati pionieri della psichedelia (Dino Valenti, Moby Grape, 13th Floor Elevators, Electric Prunes, gli “altri” Nirvana), ad ostici adepti della sperimentazione crauta e non (Amon Duul II, Can, Faust, Red Krayola, Silver Apples, White Noise, Chrome, Joe Meek) e ad un folto drappello di singer/songwriters il cui talento non è stato mai reso noto al grande pubblico (David Ackles, Laura Nyro, Fred Neil, Paul Siebel, Judee Sill). Certe presenze a mio avviso avrebbero potuto essere evitate, dato che definire “di culto” tre nomi ben noti e spesso citati come Captain Beefheart, Robert Wyatt e Nick Drake è una forzatura bella e buona, ma nel complesso sui Sixties e sui Seventies, Wiliamson fa uno splendido lavoro riportando alla luce del sole band e musicisti che, per davvero, ai loro tempi incisero “the best music you’ve never heard”. La “Rough Guide” in questione si rivela invece assai deludente quando va a gettare l’occhio (e soprattutto l’orecchio) sulle ultime tre decadi. Per quanto riguarda l’ultima - l’attuale - appare risibile soffermarsi su M.I.A. (di culto? Ma per favore!) e Lightspeed Champion (che in UK al momento conoscono perfino i bimbi), ed appare eccessivo l’entusiasmo degli autori per Baby Dee, British Sea Power e addirittura per gli insignificanti nu-folkers Tunng. Con i ’90 la situazione è similare (con due pagine a testa dedicate a gente non proprio sconosciuta come Pavement, Slint e Melvins e perfino ad Elliott Smith che arrivò a un passo dal vincere un Oscar!), mentre gli ’80 praticamente non sono trattati per niente, se escludiamo i Felt, gli Spacemen 3 e un brevissimo paragrafo dedicato all’etichetta scozzese Postcard. Scelta che ha del criminoso, perché era l’occasione giusta per restituire un briciolo di meritata notorietà a Blancmange, Comsat Angels, Rain Parade, Microdisney, The Loft, Hoodoo Gurus e Age Of Chance - solo per citarne alcuni tra i tantissimi meritevoli di menzione degli anni ’80. Magari in futuro ci penserà un'altra pubblicazione ed altri autori – hai visto mai - più equlibrati di Nigel Williamson e soci. Peccato, perché se lo avessero intitolato “The Rough Guide To The Best Music You've Never Heard From The Sixties And Seventies” sarebbe stato perfetto e staremmo qui a parlare del tipico libro da cinque stelle. Così invece lascia un bel po’ di amaro in bocca.
Articolo del
18/11/2008 -
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