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C’era una volta il Rolling Stone che a partire dalla fine degli anni ’60 e per tutti i ’70 fu considerata la “Bibbia del Rock”. Poi, con l’avvento del punk e della new wave, il testimone passò ai settimanali inglesi NME e Melody Maker la cui autorevolezza rimase indiscussa almeno fino alla fine degli anni ’80 quando con grunge, alternative e hip-hop si affermarono mensili USA più settoriali quali Spin e The Source. Con l’attuale decennio la situazione è completamente cambiata. Tranne il defunto Melody Maker le riviste cartacee di cui sopra continuano a sopravvivere ma hanno perso l’appeal di un tempo. E’ sulla Rete che si trovano le fonti più qualificate per descrivere e interpretare il momento musicale che stiamo vivendo, e la Bibbia del Duemila si chiama Pitchfork (www.pitchforkmedia.com), un sito creato nel 1996 sull’asse tra Chicago e New York e lemme lemme diventato una straordinaria cornucopia di recensioni, news in tempo reale e contenuti multimediali che tanti (noi compresi) ambiremmo ad imitare. Pitchfork nasce “indie” ma in verità a questo punto ha ampliato talmente i suoi contenuti da riuscire a seguire la scena a 360 gradi. E oggi non c’è davvero gara: è il primo sito a cui tutti noi ci colleghiamo – tutte le mattine – per sapere cosa accade nel mondo della musica; e quando ci troviamo di fronte un CD nuovo, la prima cosa che occorre sapere è cosa ne pensa Pitchfork. Perché una recensione di Pitchfork al di sotto della sufficienza oggidì equivale - nè più nè meno - ad un bacio della morte...
E oggi, per la prima volta, Pitchfork fa il grande salto dal PC alla carta stampata. Lo fa con un libro – curato dal “boss” Ryan Schreiber, dall’ottimo caporedattore Scott Plagenhoef e dalla miriade di eccellenti collaboratori della rivista – che si concentra su quelli che ad insindacabile opinione del magazine sono stati i migliori 500 pezzi pubblicati tra il 1977 e il 2006, ad ognuno dei quali è affiancato un sintetico, informativo commento. E anche stavolta Pitchfork non delude. Piace (e molto) che ci si sia concentrati sui singoli brani piuttosto che sugli album: decisione da condividere appieno, considerato che nell’era dell’mp3 è un po’ come se si fosse tornati all’epoca pre-beatlesiana dei 45 giri e che gli album, oggi, hanno assai meno senso di quanto ne avessero 10-15 anni fa. Inoltre, nonostante la complessità dell’operazione, le scelte a mio parere sono alquanto indovinate (almeno nel 90% dei casi, e guardate che è una percentuale bella alta...) e – cosa che in verità non mi aspettavo – non hanno nemmeno quel retrogusto un po’ snob che talora Pitchfork si porta appresso. Per farvi un esempio, ci sono “I Will Survive” di Gloria Gaynor, “Don’t Stop 'Til You Get Enough” di Michael Jackson e “Crazy In Love” di Beyoncè; ed è giusto così, perché sono delle grandi canzoni e i tipi di Pitchfork non fanno distinzioni tra brani che si cantano finanche nei karaoke e quelli che, invece, sono stati pubblicati come lato B di un introvabile 7’ indipendente. Per loro quello che conta è che siano belli, importanti, e rappresentativi di un artista o di un genere. Bene così’, e sentiti applausi alla redazione di Pitchfork.
Come detto, si parte dal 1977 e quindi dalla grande triade, rappresentata da David Bowie (“”Heroes””), Iggy Pop (“The Passenger”) e Lou Reed (“Street Hassle”, la selezione meno centrata delle tre, ma sul piatto della bilancia va considerato che anche se Reed le cose migliori le fece prima del ’77 non lo si poteva certo lasciare fuori...) Poi ci sono i Kraftwerk (“Trans Europe Express”), Brian Eno con un esempio di primo ambient (“1/1” da “Music For Airports”) e di seguito tutto il punk USA e UK, la disco, la new wave, il pop elettronico, il college-rock, il grunge, l’hip-hop, la house/techno e il Brit-pop. Tutto giusto, tutto corretto. Magari avrebbero potuto essere inclusi i Bee Gees di “Saturday Night Fever” (epocale); “Venus De Milo” forse era preferibile alla title-track di “Marquee Moon” dei Television; “Pretty Vacant” non avrà la valenza storica di “God Save The Queen” dei Sex Pistols ma è cento volte più bella; i Simple Minds hanno realizzato almeno una trentina di pezzi migliori di “Don’t You Forget About Me” (che peraltro non è neanche scritta da loro); e non compaiono nella lista né Dylan (niente “Slow Train Coming”?) né Neil Young (possibile sia assente “Keep On Rockin' In The Free World”?) a motivo, credo, del fatto che il loro meglio è datato prima del 1977, e – clamorosamente – neanche gli American Music Club o Mark Eitzel da solista. Poi però tutto il resto è assolutamente azzeccato, almeno secondo i miei parametri: cito una “The Chauffeur” dei Duran Duran (ci voleva coraggio per inserire i Duran in luogo dei Japan...), “Where Is My Mind”, “Wave Of Mutilation” e “U-Mass” dei Pixies (perfetto!) e “Bellbottoms” della Jon Spencer Blus Explosion per dare un’idea delle scelte meno scontate e più condivisibili. Niente da dire poi sulla selezione hip-hop, davvero impeccabile.
Ma la parte più interessante del libro è sicuramente quella che parte dal 1996, ovvero l’epoca in cui Pitchfork è nato, si è sviluppato e ha fatto sentire la sua influenza. L’epoca – in sintesi – del moderno indie-rock, dove troviamo i cavalli di battaglia che Pitchfork ha contribuito a lanciare, a partire da Elliott Smith (presente con “Needle In The Hay” e “Between The Bars” in luogo della più nota “Miss Misery”) passando per i Neutral Milk Hotel (“Holland, 1945”), i Belle And Sebastian (“The State I Am In” e “Lazy Line Painter Jane”), Cat Power (“Cross Bones Style” da “Moon Pix”), per arrivare ai giorni nostri con gli Strokes (“The Modern Age”), i Franz Ferdinand (“Take Me Out”) – al posto dei ben più importanti Libertines - i Tv On The Radio (“Staring At The Sun” dal primo album), Devendra Banhart (“A Sight To Behold”), gli Art Brut (“Formed A Band”) e gli Animal Collective (“Leaf House” e “Grass”). Non mancano naturalmente i grandi tormentoni dell’attuale decade “Seven Nation Army”, “Young Folks”, “Crazy” e “Hey Ya”, mentre mi risulta incomprensibile la mancata citazione di uno dei più prodigiosi singoli del decennio, “Steady As She Goes” dei Raconteurs. E c’è anche un paragrafo a parte dedicato ai migliori brani del 2007 che “per motivi di tempo” (parrebbe impossibile ma prendiamoli in parola...) non hanno fatto in tempo a rientrare nella Top 500 di Pitchfork, in cui tra gli altri troviamo “Umbrella” di Rihanna, “Atlas” dei Battles, “All My Friends” degli LCD Soundsystem e “Archangel” di Burial.
In definitiva: una guida della massima importanza, confezionata e scritta splendidamente, essenziale per penetrare gli accadimenti musicali delle ultime decadi. Farà - anzi, sta già facendo - EPOCA.
Articolo del
09/12/2008 -
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