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Di Simon Reynolds ho già recensito su queste stesse pagine “Post-punk 1978-1984”, uscito due anni fa sempre per Isbn. Credevo che si trattasse di un libro insuperabile, nel campo della critica musicale. Mi sbagliavo. “Hip-hop-rock”, in originale “Bring The Noise”, che riprende il discorso da quel 1984 e lo conduce fino ad oggi, raccogliendo gli articoli più significativi scritti dal Nostro negli ultimi 23 anni, va molto oltre.
Simon Reynolds appartiene a quel tipo di critici musicali - pochi, in realtà – capaci di aprirti mondi sconosciuti parlandoti di cose che credevi di conoscere benissimo. E non solo perché lo fa dal punto di vista di chi a quelle cose (lo sviluppo di rock e hip hop dagli anni 80 a oggi) c’è dentro, ma soprattutto perché è in grado di mettere al servizio dell’analisi musicale i propri studi e le proprie competenze filosofiche, storiche e sociologiche, annodando fili di un discorso invisibile ai più in maniera meravigliosamente semplice ed accessibile. Insomma, Reynolds è quel tipo di critico che in Italia ci sogniamo (perlomeno non mi sono mai imbattuto in un collega italiano con una simile ampiezza di vedute e un tale professionalità, e ovviamente nel lotto di “quelli-che-purtroppo-non-sono-come-Simon” mi ci metto io per primo), nonostante uno dei passatempi preferiti di critici e appassionati di musica sia sbeffeggiare la stampa musicale inglese. Tanto per dire, dalle dieci pagine che Reynolds dedica ai Radiohead ho capito molte più cose sulla band di quante ne abbia mai capite leggendo decine di articoli e perfino un libro (a onore del vero, non di un Italiano) dedicate ad essa. E già qui. Ma poi. Un pezzo come “Più giovani di ieri” su “indie-pop e il Culto dell’Innocenza”, datato 1986, insegna molte cose sullo stato dell’indie nostrano di oggi e fa capire quando arretrata è la situazione della nostra scena nazionale, non tanto in quanto a produzione musicale, ma in quanto a consapevolezza. Il costante andirivieni critico tra i due poli sonori esplicitati nel titolo (hip hop e rock, appunto) mette in luce due verità che dalle nostre parti sanno di eresia: e cioè che in certi momenti, nella storia musicale degli ultimi anni, a reggere la fiaccola dell’innovazione sono stati la dance (eresia minor, dato che qui talvolta lo si concede) e perfino il mainstream (eresia maior). Certo, non è una regola, e se volete capire il perché di queste di affermazioni, leggetevi il libro. L’analisi del rapporto tra musica black (non solo afroamericana: si pensi all’influenza del reggae sulla scena inglese) e musica bianca apre nel lettore interrogativi seri sull’interpretazione che dell’hip hop si è sempre data in Italia: pensate solo al paradosso di una musica afroamericana qui prodotta solo da bianchi, lasciando perdere l’imitazione dell’ultima novità d’oltreoceano; ma ci sarebbe pure la diatriba tra gangsta rap e rap impegnato... La critica alla world music (nient’altro che un colonialismo buonista) è condotta con argomenti che, se non chiudono definitivamente il discorso, poco ci manca. Altro punto notevolissimo del libro è la disamina delle caratteristiche che definiscono la musica elettronica (“Historia electronica”, pp. 313-329): una Bibbia. E poi: l’analisi dell’influenza dell’ecstasy sulla scena hip hop. “Il metal e la rinascita anti-pop”. La considerazione dei limiti del Brit pop e delle contraddizioni insite nell’atteggiamento indie verso la musica black, in particolare verso il reggae.
Un libro che definire illuminante e ricco di spunti di riflessione consapevolezza è davvero poco. Reynolds non si limita a raccontarci la musica. Ci spiega i suoi rapporti col mondo, aiutandoci a leggerlo meglio. Gli applausi non bastano. Si suggerisce la venerazione.
Articolo del
11/12/2008 -
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