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A mio avviso, non un semplice libretto di amarcord. Già, perché questo “Metti un tigre nel motore. L’immaginario pop degli anni 60/70” (immaginario pop italiano, specifichiamo), non è un semplice “repertorio d’immagini che riproduce anastaticamente alcune tra le più belle, più commoventi, più creative e più durature pubblicità che caratterizzarono l’irripetibile stagione degli anni Sessanta e Settanta”. Non solo perché, come avverte la quarta di copertina, queste immagini “hanno inciso pesantemente sull'immaginario iconografico e visivo di varie generazioni, di un'intera nazione”, ché in fondo sempre nell’amarcord saremmo, seppure con sfumature sociologica. Ma perché a leggerle (sì, a leggerle, una per una in tutte le sue scritte e scrittine, così simili a un odierno comunicato aziendale) e a guardarle (alcune sono opere di veri artisti), si capisce che questo è “un volume sulla storia dimenticata della cultura popolare” (sempre la quarta di copertina), certo, ma anche un racconto delle trasformazioni del costume nazionale.
Ricapitoliamo. L’Italia per buona parte del ’900 è stata un Paese rurale. Il cambiamento decisivo avviene tra gli anni ’50 e gli anni ’70, con l’espansione industriale, le migrazioni interne, il miracolo economico. Una trasformazione della realtà sociale che influenza le aspirazioni degli Italiani, i loro valori, i loro stili di vita. Guardatevi un qualsiasi film di Totò, Fabrizi o Sordi pre-1958: vi troverete famiglie popolari che vivono in case arredate come dieci o vent’anni prima, donne che sono o casalinghe sante e matrone (o aspiranti tali) o femmes fatales perdute e peccatrici, ometti che fanno mestieri come il tranviere, l’impiegato, il possidente terriero o il contadino, se non il disoccupato cronico, bambini tirati su rusticamente e spartanamente. Poi prendete questo “Metti un tigre nel motore” (slogan della Esso memore dell’automobile al maschile cantato da Marinetti a inizio secolo) e troverete donne che reclamano sempre più tempo libero dai lavori casalinghi (da cui il proliferare di elettrodomestici), perché evidentemente lavorano, che tengono alla linea (le pubblicità della margarina), perché una volta sposate non abdicano alla loro femminilità; uomini scattanti, dinamici, che vogliono essere attraenti e lo sono al punto tale che perfino le suore si fermano a guardarli; bambini progressivamente sempre più moderni e nutriti di merendine. E poi il mito dell’automobile come promessa di svago anche erotico (p. 130), suggestioni erotiche anche subliminali (perfino nella pubblicità del gelato, p. 49), accenni a una libertà sessuale neppure immaginabile anni prima (“L’aperitivo che non fa perdere la testa” a p. 113, con un’immagine a rischio threesome), tensioni verso il futuro anche nell’arredamento (“33 anni al 2000. Ci avete mai pensato?” a p. 127).
Potrei continuare a lungo, ma il concetto è chiaro e il divertimento sarà vostro: questa è una storia per immagini della trasformazione dell’Italia in Paese moderno, in un’epoca, come suggerisce Paolo Petroni in uno dei quattro minisaggi alla fine del volume (gli altri sono di Renzo Paris, Corrado Farina e Silvana Baroni), in cui la pubblicità poteva essere ingannevole, ma non irreale: perché in essa potevano entrare sofferenza e rabbia, e non dominavano una falsa allegria imposta dogmaticamente. Bel libro, davvero.
Articolo del
30/12/2008 -
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