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Giuseppe Genna è così. Non ci puoi far niente. Se vuoi farti un nemico, consiglialo o regalalo a Natale. Irrita, provoca, si smarrisce, attacca quando meno te lo aspetti, soffre. Dev’essere anche abbastanza stronzo. Rimane solo da addentarlo e deglutire, talvolta a fatica, come capita con un boccone marcio da inghiottire con un divaricatore boccale. Quella sua scrittura prosopoetica, intinta nel famigerato stream of consciousness e alternante sprazzi di assoluta inintelligibilità a pezzi di esilarante narrazione, è esattamente quel che serve per intonare con mestizia e violenza un De profundis al martoriato paese Italia. Per capire che (brutta) fine stanno facendo gli Italiani Brava Gente.
Nell’ultimo lavoro – fin troppo episodico, se possibile più sbandato del solito, frutto evidente di una composizione prolungata nel tempo e in itinere con tanto di avviso dantesco piazzato a pagina 73 – lo scrittore milanese si fa personaggio e si ficca dentro una farraginosa autobiografia centrifuga, tanto affascinante quanto motorizzata diesel. Centrifuga perché a partire da mozzichi e bocconi della sua eventuale esistenza, lasciata a metà strada fra realtà e mistificazione e cogliendo anzi l’occasione per discutere sulle infinite ambiguità dell’opera di finzione, si staccano come saette spietate invettive, tirate sul pianista, arroccamenti intimisti, fulminanti epifanie sociali e, non ultimo, confessioni al limite della legalità (mezze vere? Mezze false? Chissenefotte).
Attorno al vecchio comunista padre morente, ai malanni della pelle e, soprattutto, della mente che lotta con un fantasma mai stanato, s’attacca una sequela di esperienze emblematiche: dall’iniziazione insensata all’eroina all’esperienza gay col trans Vanessa e le sue amiche (?) dal cazzo duro, fino alla drammatica immersione pseudowallaciana in un villaggio-vacanze siciliano. Un teatro degli orrori, un distorto grand tour dell’Oggi. Sembra infatti che lo scrittore-Genna costringa il disgraziato personaggio-Genna a compiere un’operazione di tipo autoptico: mi infilo io, per vostro conto, nelle nefandezze della contemporaneità (la morte, la droga, la depressione, il mercimonio sfrenato, l’ambiguità sessuale, l’amnesia della storia) e ve ne fornisco un rapporto dettagliato. Sarebbe piaciuto al povero Foucault, questo cattivissimo Italia De profundis: mette sotto la lente quelle inquietanti strutture di micro-potere che ormai ci portiamo fin dentro la carne. Dall’igienismo al kafkiano apparato burocratico della morte, dal rapporto compulsivo col cibo (esilaranti i passaggi alla “mensa” del villaggio siculo) a un intellettualismo automatico che ficca nel freezer ogni genuina possibilità di onesti sentimenti.
Forse è proprio questa la sirena più devastante che scatta dai millemila aggettivi di Genna, dalle sue pagine mezze piene mezze vuote, dalle sue urla drogate di disperazione e dai suoi arcigni sussurri, dallo scarnificarsi a ogni capoverso in una straordinaria onestà finzionale: stiamo veleggiando senza requie al di là dell’umano. Amen.
Articolo del
05/01/2009 -
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