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Isbn prosegue a proporre libri che rischiarano la mente dalle tenebre. E non sono ironico. Questo “Musica di plastica” spazza via tutte le chiacchiere che abbiamo dovuto sopportare per cui un artista sarebbe da preferire a un altro perché più “vero”.
Barker e Taylor ripercorrono tutta la storia del rock, tanto che il primo capitolo, dedicato alla triste vicenda di Kurt Cobain, pare quasi un’introduzione. “La cosa più triste e frustrante è che per non tradire se stesso Cobain non vedeva altro modo che restare fedele al personaggio cucitogli addosso dai fan, lo stesso personaggio che una volta sognava di diventare anche lui e che ora non voleva più”: insomma, l’autenticità non è altro che un mito, capace di generare rockstar come di distruggerle, anche fisicamente, per la tensione che crea nel rapporto tra esse e i fans. Mito che si collega all’altro concetto basilare delle roots, le radici, musicali, ma anche umane. La ricerca di autenticità (una vera quest du Graal) nel r’n’r è quindi ricerca di ciò che è primitivo, grezzo, duro, selvaggio. Perciò Barker e Taylor risalgono alle radici del r’n’r, al blues e al country degli anni 20, 30 e 40: documenti alla mano, attraverso le vicende di Leadbelly, John e Alan Lomax, Mississippi John Hurt, Jimmie Rodgers, si scopre che il mito della purezza incontaminata delle origini è stato voluto e creato da discografici bianchi progressisti (ma anche no) che partivano dal voler cercare nell’“altro” l’idea preconcetta, anche se “buona” che avevano di lui. In questo caso, se il “bianco/europeo” è il cattivo, il “nero/africano” dev’essere buono, e per esserlo deve essere incontaminato rispetto alla cultura bianca: “l’isolamento razziale di molti interpreti neri è una finzione: erano a contatto con molteplici forme di musica bianca e nera, e imparavano da ciò che ascoltavano”. Impressionante come questo desiderio di autenticità si sia scatenato negli anni ’20, gli anni dell’industrializzazione e della diffusione massima di nuovi modelli di vita e di comportamento. I loro naturali complementi musicali furono il jazz e le canzoni del Tin Pan Alley. Ebbene, al di là dei connotati razzisti impliciti nel rifiuto di questi due generi (prodotti da neri ed Ebrei), è stupefacente il profluvio di giudizi che associano l’“artificiosità” della vita moderna a queste musiche. In sostanza, il mito dell’autenticità è un mito, oltre che falso, implicitamente reazionario. Lo stesso atteggiamento – magari involontario – riscontrabile oggi nel fenomeno della world music e in un’avventura come quella del “Buena Vista Social Club”, cui è dedicato il capitolo nove. Si scopre anche che perfino la canzone autobiografica, comunemente ritenuta il massimo dell’autenticità, contrariamente a quanto si crede, non è un tratto originario della canzone folk, (ovvero della musica che crediamo più “pura”) ma nasce in essa nel momento in cui un interprete diventa abbastanza popolare da potersi permettere di cantare della propria vita senza che ciò annoi il pubblico, ma anzi lo avvinca. Nel rock, ciò avviene negli anni '60, quando i fans diventano così interessati alla vita delle star, che l’industria discografica capisce che cantare di sé alimenta il mito e fa vendere più dischi. Curiosamente, il rock nacque artificioso. Elvis non fu mai se stesso: interpretò dei personaggi canori, infrangendo così la segregazione razziale in musica. I Beatles, invece, rappresentarono lo snodo fondamentale per l’immissione dell’autenticità nel rock: prima del 1965 furono il trait d’union tra la finzione del rock delle origini e la bubblegum music, aprendo le porte al concetto di pop come rappresentazione. Dopo il ’65, influenzati da Dylan (suggestionato da Woody Guthrie, ispirato da Jimmie Rodgers), sdoganarono il concetto di autenticità nel rock. La sua incarnazione più estrema nei primi anni ’70 fu l’opera di Neil Young, “il più vero”: ma pure album come “Tonight’s The Night” o “Rust Never Sleeps” raggiungono la verità attraverso un vero e proprio metodo. L’ansia di essere veri divorò nei ’70 tanto Donna Summer quanto John Lydon/Johnny Rotten, quando proprio grazie alla loro capacità di rappresentazione avevano colto i tratti fondamentali verso cui si muoveva il mondo (cosa che i loro mentori, Moroder e McLaren invece sapevano benissimo, così come i Kraftwerk). Stessa angoscia per l’electro e la dance, come dimostrano i casi di Moby e KLF.
Conclusione? “Se [oggi] una band non finge almeno di essere vera di tanto in tanto, perde credibilità e fans”: forse sarebbe ora di piantarla. Libro che fa pensare e riallineare le proprie coordinate mentali. Fondamentale e immancabile.
Articolo del
15/03/2009 -
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