|
Ci sono album unanimemente considerati leggenda, in ogni dove e ogni cuore. Altri invece che sono tali al centro dell’Impero e meno considerati da noi, periferia che alle novità ci arriva sempre dopo. Così accade che il disco con cui David Bowie inventa post-punk e new wave da noi sia meno noto e osannato del suo fratello minore, il pur ottimo “Heroes”, che da noi godette di un impatto straordinario complice la discesa dell’ex Duca Bianco a Roma, per registrare una puntata di “Odeon”, seminale programma di varietà fine anni 70 che gettò in Italia alcuni dei più bei semi che mai poi abbiano fruttificato.
Ma l’inizio di questa storia, e di tutta una storia del rock, è “Low”, uscito nel gennaio 1977, frutto di un 1976 drammatico e oscuro. Hugo Wilcken, scrittore australiano che vive e lavora a Parigi, di questa perla nera del rock mondiale (il 14° album più bello della storia del rock, per Q magazine) sviscera radici, concepimento, genesi, crescita, fino allo sbocciare nei negozi e nelle orecchie di una generazione di nuovi barbari che si sarebbero impadroniti del trono del rock qualche anno più tardi, seguendo il Verbo dettato dalla sacra trimurti David Bowie - Brian Eno – Tony Visconti. Ma ci sono anche molte divinità minori, in questo disco: Iggy Pop, di cui contemporaneamente alle registrazioni di “Low” Bowie produceva e co-scriveva “The Idiot”, e i musicisti, Carlos Alomar, Dennis Davis, George Murray, Ricky Gardiner e Roy Young. Wilcken risale correttamente all’epoca di “Station To Station” per individuare le radici del disco: l’incrocio tra funky bianco e motorik dusseldorfiano, Kraftwerk e Neu!, incubi alla cocaina e paranoie esoteriche, alberi della vita cabalistici e sogni futuristici e messianici nel lost weekend losangelino in cui il disco del 1976 fu concepito. E l’esperienza di “L’uomo che cadde sulla Terra”, film pseudo-fantascientifico di Nicholas Roeg in cui Bowie in pratica interpreta un se stesso alieno coinvolgendosi così tanto da rimanere “dentro” la parte almeno altri sei mesi e da trarne le copertine sia di “Station To Station” che di “Low”, appunto. E la fuga verso una sognata e sperata tranquillità europea. Wilcken ci racconta proprio tutto: i fantasmi del Château d'Hérouville e il ritorno berlinese alla serenità, piano, come una convalescenza della “Montagna incantata” di Thomas Mann; gli scazzi con il manager dello Château Laurent Thibault, già nei Magma, e le liti forensi e fisiche con la prossima ex moglie Angie; l’influenza inattesa e poco nota di Steve Reich sul lavoro e quella più famosa dei pittori espressioni di “Die Brücke”. Ah, per chi non lo sapesse: “Low” apre la cosiddetta trilogia “berlinese” e inaugura una scrittura dei testi da parte di Bowie non più narrativa ma fatta di accenni, cut-up e frammenti, specchio perfetto della destrutturazione compositiva a livello sonoro dei brani.
Si può dire che dal 1978 al 1984 gran parte della new wave non abbia fatto altro che cercare di rifare quest’album. Tutto questo e di più, insieme a un’interessante analisi brano per brano, rende il libro un must per ogni bowiano che si rispetti e per ogni amante del buon rock. Vedete voi. Io v’ho avvertito.
Articolo del
22/05/2009 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|