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Opera meritoria, la decisione della Isbn di ripubblicare in Dvd questo “Oscenità e furore”, film definitivo sui Sex Pistols già edito in Italia qualche anno fa in Vhs da L’Unità.
Doppiamente meritoria, perché il film è uno dei migliori documentari rock mai visti (e chiarisce diversi punti oscuri e falsi miti sulla band) e perché al Dvd si accompagna un succoso libretto di 64 pagine, con un saggio decisamente bello e interessante di Hugh Barker (quello del fondamentale “Musica di plastica”), una testimonianza dello stesso Julien Temple, un saggio di Marco Philopat sui Sex Pistols (che li politicizza, a mio modo di vedere, in modo non ortodosso: insomma, li tira un po’ troppo sulle sue posizioni politiche), filmografia e discografia della band. Che troppo spesso è spacciata per un’invenzione del manager Malcolm Mc Laren, vulgata che contribuì a diffondere lo stesso Temple firmando nel 1980 il mockumentary “The Great Rock’n’Roll Swindle”, voluto proprio dal situazionista londinese. In debito con i vecchi amici per questo peccato di gioventù (un po’ troppo complesso spiegarne le ragioni qui), Temple nel 2000 confezionò questo toccante opera che tratta delle rapidissime ascesa e caduta di una delle più influenti band della storia del rock, ridimensionando ai minimi termini i meriti di Mc Laren (che tra l’altro divenne il manager dei Sex Pistols su richiesta di Steve Jones e Paul Cook, e quindi non inventò un bel nulla) e mostrandone le indubbie colpe: basti pensare che Rotten, Vicious, Jones, Cook e Matlock non videro mai un penny, pur riuscendo a far entrare sette 45 giri nella Top Ten inglese e incassando anticipi e buonuscite di decine di migliaia di sterline per i licenziamenti anticipati da Emi e A&M. In più, all’apice della fama e del successo, Rotten dormiva nella metropolitana perché non aveva i soldi per pagare l’affitto. Un aspetto che comunque non è il più interessante del Dvd. Barker sottolinea nel suo saggio un risvolto importante, che affiora più volte nel Dvd: e cioè il fatto che Rotten, per esprimere la carica di rivolta anti-estabilishment che sentiva dentro di sé e intorno a sé, non scelse (e giustamente) la strada della spontaneità, ma quella della teatralità, ispirandosi a personaggi come il Riccardo III di Shakespeare o il Gobbo di Notre Dame di Hugo. Insomma, la finzione è veicolo per essere autentici. E fu proprio Rotten, uno dei più grandi frontman del rock (che in realtà si chiamava Lydon: e il nickname è un altro elemento di teatralità), a fare la differenza: come cantava (Iggy Pop più il Dylan 1965-66? Non basta), cosa cantava, il suo modo di porsi. La band aveva un suono glam rock molto vicino a Who e Stooges (e l’ultimo brano eseguito dal vivo nella loro carriera fu una “No Fun” di due ore) e in effetti Steve Jones era un fan di Roxy Music e David Bowie (“God Save The Queen” cita un frammento del riff iniziale di “Hang On To Yourself”), cui rubò la strumentazione la sera dell’addio di Ziggy all’Hammersmith Odeon. Non a caso a Bolan piacevano i Pistols, come si vede nel film. Rotten era l’intellettuale del gruppo, sebbene working class, e aveva gusti più raffinati, dal dub al krautrock. Ma nessuno dei Pistols era un ex hippie: erano una band realmente rappresentativa della working class, mentre i Clash – ad essi spesso contrapposti come modello di autenticità - avevano un leader, Joe Strummer, di estrazione borghese ed ex hippie, come racconta Julien Temple nel suo saggio. Grazie anche al fatto di scrivere comunque canzoni, i Pistols riuscirono a essere la band più oltraggiosa mai vista: “Credo che la maggior parte di questi gruppi migliorerebbe grazie a una morte improvvisa. Attualmente i peggiori sono i Sex Pistols. Sono l’antitesi della razza umana”, dichiara nel Dvd un esponente della maggioranza cristiana. Anche questa è una lezione: per sconvolgere veramente devi essere accessibile, scrivere canzoni con una melodia cantabile. Il culmine della provocazione fu, come si sa, l’uscita di “God Save The Queen”, nell’anno del Giubileo della Regina. Ricorda Rotten: “Ci alienò tutto il Paese. Se ci avessero impiccato in piazza avrebbero applaudito 56 milioni di persone. “God Save The Queen” era l’inno nazionale alternativo”. Con un numero uno mai ufficialmente attribuito. Rotten, a differenza di tanti punk figli di papà, pagò in prima persona, subendo un aggressione: “Mi colpirono questa gamba con la lama di un machete che rimase incastrata nel ginocchio e non riuscirono a sfilarla, così dovetti andarmene con la lama infilata. Mi trapassarono questo polso con una pugnalata. Sono stato fortunato che non mi abbiano cavato un occhio, perché mi hanno colpito con una bottiglia. Quando sono arrivato all’ospedale la prima cosa che hanno fatto è stata chiamare la polizia. E mi hanno arrestato per il sospetto di aver causato una rissa”.
Altre cose notevoli: le lacrime di Rotten che rimpiange di non aver saputo impedire a Vicious di sprofondare nell’eroina, nonostante gli sforzi; i disperati tentativi della band di separarlo da Nancy Spungen, che – si lascia intendere – forse fu introdotta nell’ambiente proprio da McLaren; i numerosi episodi di cinismo disumano di quest’ultimo; lo schifo di Rotten per il punk diventato moda; le terribili immagini di Vicious ormai ridotto a zombie; il rammarico di tutti per essersi fatti usare da McLaren, che semplicemente non capì che quella che aveva sotto mano non era solo un fenomeno giornalistico, ma una delle più grandi rock band di tutti i tempi. Di cui questo film è il giusto epitaffio, una commovente lapide commemorativa nei secoli dei secoli. Da avere assolutamente.
Articolo del
13/07/2009 -
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