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Ci sono due modi di considerare “Il ragazzo orchidea”: quello “ideologico” e quello affabulatorio.
Presa dal primo punto di vista, questa storia in cui, prima dell’11 settembre, Nazim, un immigrato marocchino da vent’anni in Italia, in procinto di tornarsene in patria dalle due mogli e dai quattro figli, e Beatrice, trans trentenne con tutte le angosce del caso e che studia da donna (ma, come dice l’amica trans Janine, più che altro “da nonna”, visto che Beatrice si esempla su Jane Austen, non proprio un modello di contemporaneità femminile), personalmente non mi piace. I personaggi, quelli maggiori e quelli minori, sono quasi tutti tagliati con un’accetta ideologica. Nazim, dal nome che evoca il poeta turco Hikmet, famoso per le liriche d’amore, è l’immigrato buono, anche se non stinco di santo, che si fa carico di tre fratelli minori, due buoni come lui e uno cattivo, Tarik, che prima fa lo spacciatore e poi finisce reclutato da Al Qaeda e nella lista dei sospetti attentatori di Madrid 2004. Ex contadino, costretto a emigrare per decisione familiare solo per preparare la strada proprio a Tarik, ha nelle mani e nel cuore la sapienza antica delle civiltà agricole e patriarcali, e a questo Occidente fa fatica ad abituarsi. Insomma, il prototipo illuminista del buon selvaggio. E in una luce positiva viene presentato per tutto il libro. E però, a mio avviso, c’è poco da magnificare: sarà un buon uomo, ma uno che sostiene convinto che le donne non devono saper né leggere né scrivere io lo chiamo bieco maschilista – e mi fermo qui. In Nazim, exemplum del buon immigrato che noi cattivi Europei non comprendiamo, sono concentrate tutte quelle posizioni di estrema sinistra che hanno finito per essere la Vandea delle conquiste civili dell’Occidente. Aprendo la strada alle destre populiste sorte proprio in nome della difesa dell’European way of life (pensate all’Olanda e alla Danimarca e capirete che non sto sparando cazzate alla Fallaci). Janine, l’amica trans che fa la prostituta senza che gli amici lo sappiano, buona, allegra, entusiasta della vita, mi pare un altro prototipo: quello della putaine respecteuse. Il vecchio amante di Beatrice, il ricco professor Sirio, è un altro prototipo ancora: anziano e paterno, a lungo l’ha consigliata e mantenuta, guidandola nelle sue decisioni, come una buona stella. La serva di Sirio, Gemma, è il prototipo del popolino che ha sofferto, sì, ma per questo vuole dimenticare le sofferenze del passato non riconoscendole negli Altri, cioè negli immigrati. Ho trovato questo personaggio il più stereotipato e ingeneroso, tanto più che in un paio di occasioni lascia intravedere abissi di dolori passati approfondire i quali avrebbe senz’altro portato fuori strada il romanzo, ma che rendono ingiusto il modo in cui è liquidata questa cameriera. Il personaggio più riuscito, senza se e senza ma, è proprio quello di Beatrice, nonostante anch’essa sia un personaggio simbolo, come si può evincere dal nome: donna angelo per Nazim (anche atroce disillusione, per lui) e per Sirio, che l’ha trattenuta dall’operarsi per mantenerla in un limbo di perfezione, pescando le argomentazioni a piene mani nella mitologia (il Rebis alchemico, il mito dell’Orchidea, ecc.). Eppure il personaggio di Beatrice ha la forza della vita vissuta: i suoi dolori, i suoi desideri, le sue speranze, i suoi timori sanno di carne e sangue, hanno forza e verità. E qui arriviamo al secondo modo di considerare questo romanzo: perché la Presciuttini sa scrivere bene, e pur partendo da una folla di personaggi simbolo stereotipati, come detto, sa appassionare e rendere viva una storia che in altre mani sarebbe nata morta. A volte partorisce frasi che illuminano un mondo interiore con mirabile sintesi: come nella descrizione delle due mogli lontane di Nazim, che guardano la televisione e lui s’immagina per questo felici “in un mondo di oggetti”. E qui, se ci pensate, si spalancano panorami infiniti nell’animo maschile, specie con tendenza maschilista.
Insomma, a dispetto delle premesse, “Il ragazzo orchidea”, pur con tutte le sue metafore sul rapporto Oriente-Occidente, a volte stucchevoli (lei insegna a lui a scrivere, avvicinandolo a una maggiore consapevolezza; lui le insegna a fare il tè arabo, con tutta la lentezza necessaria, insegnandole che per fare le cose bene non bisogna avere fretta; ecc.), vince e convince. Penso che se la Presciuttini riuscisse a liberarsi da una certa programmaticità davvero vetero, potrebbe imporsi tra la narratrici di primo piano in Italia.
Articolo del
20/07/2009 -
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