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Un materasso steso a terra in una stanza, una trave di legno sul soffitto su cui un ragno tesse pazientemente la sua tela, uccelli migratori che volano via disegnati su una tenda alla finestra con lo sfondo di un cielo blu e giallo. Su quel materasso un uomo, privo di conoscenza da 3 settimane per una pallottola che lo ha ridotto in quello stato vegetativo. Accanto a lui sua moglie, che lo cura con quei pochi mezzi che ha e che veglia di continuo su quella flebo, riempita solo di acqua e zucchero, e quel tubo che entra nella bocca del ferito e che mantiene vive le speranze di poterlo salvare. E fuori la guerra, gli spari, le grida di dolore, la morte continua.
Siamo in Afghanistan, presumibilmente, e l’uomo morente è uno dei tanti combattenti di questo martoriato paese in guerra da sempre. E la donna è una delle tante probabili future vedove e a sua volta combattente della guerra quotidiana e secolare per una più dignitosa considerazione della donna in quel paese. Sono sposati da dieci anni, ma lui, l’eroe per la sua famiglia e per il villaggio, non le è mai stato accanto: sempre a combattere con il suo kalashnikov, contro altre fazioni, contro nemici esterni, contro tutto e tutti. E poi alla fine ridotto cosi, in coma per una pallottola sparatagli da un amico in una rissa per un motivo banale...(metafora del fuoco amico?). No, lei non avrebbe voluto un eroe assente: avrebbe voluto un marito presente, ed un padre che si fosse ogni tanto ricordato delle sue figlie, e le avesse dato un po’ di protezione e amore. Ma non era mai andata cosi, ed ora che lui è li steso in terra, senza coscienza, muto ed indifeso, la donna può finalmente parlargli liberamente, di tutto quello che non le aveva mai potuto dire su di lei, sulla sua famiglia, sul suo passato. Gli svela la loro storia, perché i suoi genitori avevano offerto lei in sposa all’eroe nonostante i genitori di lui avessero chiesto sua sorella minore; le racconta di quel fidanzamento fatto senza che si fossero mai visti perché lui era fuori a combattere, ed anche i primi 3 anni di matrimonio trascorsi senza che ancora mai si fossero incontrati (nella stanza, sul muro, c’è una foto di lui: è con quella foto che lei ha vissuto quegli anni senza mai vederlo ne conoscerlo).
Il racconto della donna procede lento ed essenziale come le gocce di acqua e zucchero di quella flebo che tiene, forse, ancora in vita l’eroe; e il tempo della vita della donna è scandito dal respiro regolare dell’uomo. Lo vorrebbe morto, in impeti di rabbia e di ricordi per tutto il dolore che le ha causato. Poi anche il mondo esterno entra violentemente in questa loro sfera intima, dapprima con una ronda di uomini della sua stessa fazione, che lo derubano, e poi con una ronda di uomini di altra fazione, che lei riesce ad allontanare dichiarandosi una prostituta, e dunque evitando di essere violentata ben sapendo che da quelle parti la violenza và perpetrata sulle donne pure, e non su quelle che vendono il proprio corpo. Ma insieme agli uomini armati di questa seconda ronda ce n’è uno che torna, fragile e balbuziente, a chiedere amore a pagamento non sapendo neanche cosa sia e come si faccia. E questo risveglia nella donna anche le sue mancate dolcezze mai ricevute dal marito, le sue frustrazioni sessuali inconfessabili, e la perdita del controllo su se stessa per la rabbia finalmente esplosa la portano fino alla confessione della verità sulle figlie.
Siamo lontani dallo sguardo di un contesto più ampio in cui si svolgevano romanzi afghani di maggior successo qui da noi, vale a dire “Il cacciatore di aquiloni” e “Mille splendidi soli”. Qui siamo in una dimensione intima, fondamentalmente quella di una coppia: dove però l’uomo è rappresentativo di tutte quelle categorie di uomini violenti che non esitano a combattere in nome di Allah; e la donna è la voce drammatica della condizione femminile in cui sono costrette a vivere in tutti quei paesi dove sono considerate al massimo come merce di scambio e di piacere. E qui stà la forza del racconto: in questa scenografia quasi da pièce teatrale la stanza ove giace l’uomo morente diventa il confessionale liberatorio per la donna, che con il suo flusso di parole quasi ininterrotto trasforma l’uomo in quella “pietra di pazienza” che secondo il racconto fattole in punto di morte dal padre di lui si trova a La Mecca, ed è una pietra che assorbe come una spugna tutti i segreti che gli uomini le rivelano, fino ad esplodere. Però, come anche per gli altri romanzi sopra ricordati, riteniamo importante avvicinarci a questo mondo cosi distante, cosi diverso eppure da qualche anno cosi intrecciato con il nostro, attraverso la letteratura ed attraverso i racconti di chi da quel mondo proviene e ce lo descrive con il dolore vero di chi lo vuol cambiare per migliorarlo. E lo scrittore Rahimi, nato a Kabul nel '62 ed oggi residente a Parigi dopo aver ottenuto asilo politico, è sicuramente una delle voci più interessanti di quel mondo. Noi d’altronde riteniamo che solo attraverso una comprensione culturale si possano trovare soluzioni a quelle aberranti condizioni di subalternità femminile da una parte e ad una cessazione di tutte quelle guerre che ormai da troppi anni fanno da sfondo a molti paesi come l’Afghanistan. E riteniamo che senza un approccio comprensivo e dialogante del diverso non si va nella giusta direzione, neanche se ci ostiniamo a chiamare “di pace” le nostre missioni.
Articolo del
29/10/2009 -
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