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Da qualche giorno è in tutte le librerie “Vincenzo io ti ammazzerò. La storia dell’uomo che ha inventato i cantautori”, autobiografia del discografico e produttore Vincenzo Micocci. Per chi non lo conoscesse, basti dire che nel corso di una carriera che l’ha visto dapprima alla RCA italiana, quindi alla Ricordi e infine alla IT da lui stesso fondata, Vincenzo Micocci è stato una delle figure centrali della discografia del nostro Paese. Fu lui che alla fine degli anni ’50 ideò il termine “cantautore”, lanciando i romani Gianni Meccia, Edoardo Vianello e Nico Fidenco. Sempre lui che nei ’60 portò ad affermarsi Tenco, Jannacci, Vanoni e Gaber, inventò il playback in TV con Bobby Solo e fece incidere il primo 45 giri a un giovane Edoardo Bennato. Ancora lui che nei ’70 diede vita alla “scuola romana”, dando modo di crescere e maturare a ragazzi che si chiamavano Antonello Venditti, Riccardo Cocciante, Antonello Venditti, Francesco De Gregori e Rino Gaetano, solo per citare quelli che hanno fatto più strada. Ma la lista dei talenti scoperti e lanciati da Vincenzo Micocci (e dalla sua IT) è talmente lunga che se ne può avere un’idea solo procurandosi il libro. La qual cosa è altamente consigliata: “Vincenzo io ti ammazzerò”, infatti, oltre ad essere un gustoso memoriale, rende benissimo lo spaccato di un’epoca e di una passione nel fare dischi che oggi – ahimè - pare definitivamente tramontata.
Nei giorni scorsi ho avuto modo di incontrare Francesco Micocci, figlio di Vincenzo oltre che manager dell’etichetta IT, che ha collaborato insieme al fratello Stefano alla stesura del volume, curato anche da Luciano Ceri. Quello che segue è il resoconto della nostra chiacchierata.
Una delle parti più avvincenti del libro riguarda il modo in cui Vincenzo Micocci è entrato nel mondo della discografia. Dà l’idea di come a quei tempi, negli anni ’50, ci fossero molte più opportunità per i giovani.
Tutto nasce con mio padre che studiava con questa radio “a galena”, quindi conosceva la musica benissimo. Soprattutto sentiva la classica, ma poi più o meno sentiva tutto alla fine, per cui era espertissimo. A un certo punto, molto giovane, è entrato a lavorare nel negozio di Via delle Convertite dello zio, che era MusicalRadio, a Roma. Ha cominciato vendendo dischi e basta, ma poi è diventato nel giro di poco un esperto incredibile. Perché con la radio conosceva tutto quello che c’era in giro per il mondo. E successe che MusicalRadio divenne un po’ il centro culturale romano, in cui si riunivano tutti quanti. Anche per sapere le novità della musica, ma alla fine era diventato un punto di ritrovo in cui si parlava di arte, cultura, musica, teatro, cinema. Capitò che il direttore delle vendite della RCA, che frequentava il negozio, gli chiese - sapendo che lui era molto esperto - delle previsioni su quanto avrebbero venduto dei dischi che venivano dall’America, tipo Harry Belafonte: siccome aveva deciso di pubblicarli anche in Italia, chiese quale quantitativo dovesse prenderne. Mio padre, dando una stima, esagerò. Ma esagerò perché lui pensava che prima o poi sarebbe arrivata questa nuova tendenza dall’America. Gli fece importare tipo 500 copie di Harry Belafonte... e azzeccò tutto! La RCA praticamente li vendette a breve. Immediatamente dopo, gli chiesero se voleva far parte della RCA ed addirittura gli offrirono la posizione di direttore artistico. Fu anche un azzardo da parte della RCA. Però, capito, uno che azzecca tutte le previsioni di vendita dei dischi importati... E da quel momento iniziò la sua carriera all’interno della RCA.
Verso la fine degli anni ’50, Micocci alla RCA inventa la figura del “cantautore”. Come avvenne questa intuizione?
Fin dall’inizio lui ha creduto in questa figura del cantautore, che era quella che comunque alla distanza poteva reggere. Perché in fondo l’interprete, se non mantieni sempre il team (l’autore del testo, quello della musica, ecc.) sempre bello unito, può perdersi, non è detto che regga. Lui ha sempre puntato sui cantautori proprio perché ha detto: “se la cantano e se la suonano”. Oltretutto, sono tutti bravi musicisti quelli di cui si è occupato, quindi si accompagnavano da soli, quindi alla fine era più facile. Certo, per farlo crescere un cantautore non sono mica tutte rose e fiori. Ma lo sai che per la maggior parte non volevano nemmeno interpretare loro le loro canzoni? Per esempio, nel caso di Gianni Meccia, dove nacque la parola “cantautore”, lui scriveva queste canzoni tipo “Odio tutte le vecchie signore”. Però non voleva cantarle lui. Diceva: “io sono un autore e basta”. E mio padre disse: “Ma chi se le deve cantare se non Gianni Meccia, se non l’autore? Queste chi altro le può cantare?”. E quindi lo convinse, e lì nacque il termine “cantantautore” che poi era cacofonico e diventò “cantautore”. Micocci andò da Ennio Melis (direttore della RCA) e gli disse: “che te ne pare di cantantautore”? Melis disse: “pensala un po’ meglio, è un po’ cacofonico”. Allora mio padre tornò il giorno dopo con “cantautore”. Parliamo del ’57-58. E da questo momento in poi... Ci fu Edoardo Vianello che scriveva solo la musica, però è sempre stato considerato un “cantautore”. Come sono sempre stati considerati cantautori Riccardo Cocciante e Amedeo Minghi, senza esserlo perché scrivono solo la musica. Però la parola era “entrata” e ne ha usufruito anche più gente di quelli che realmente fossero “cantautori”.
Poi nei primi anni ’60, Micocci riceve un’offerta dalla Ricordi di Milano, di cui diventa il direttore artistico.
Quando andò a Milano, si ritrovò - anche senza scoprirlo lui – Luigi Tenco, con cui fece “Mi sono innamorato di te” che secondo me è il pezzo più bello e più intenso del cantautore genovese. Trovò Ornella Vanoni che era un’interprete; Giorgio Gaber, lo stesso Enzo Jannacci, e poi Gino Paoli... Fece tra l’altro Bobby Solo, “Una lacrima sul viso” e l’invenzione del playback: Bobby Solo che a Sanremo lo chiamò la mattina disperato: “non ho voce, che devo fare?” Lì per un fatto emotivo a Bobby Solo era andata via la voce. Allora Micocci andò da Ravera, l’organizzatore di Sanremo, e gli disse: “che vogliamo fare? Vogliamo rinunciare a questa canzone?” E gli propose: “mettiamola fuori gara, però Bobby Solo lo facciamo cantare in playback”. Per cui quando arrivò poi in playback, il nastro era perfetto, l’arrangiamento era perfetto... Fu un successo clamoroso. Avrebbe vinto – in realtà aveva vinto – ma era fuori concorso. Vinse poi “Non ho l’età” di Gigliola Cinquetti, ma poi, dal lunedì dopo, ci furono i negozi della Ricordi assaltati da richieste per “Una lacrima sul viso” che superò il milione e mezzo di copie.
Quindi, intorno al ’66, il ritorno a Roma.
Micocci tornò a Roma per ragioni familiari, con mia madre che aspettava mia sorella... quindi preferì tornare a Roma. Fece avanti e indietro tra Roma e Milano per un certo periodo, poi alla fine tornò e si trovò anche in un momento difficile, perché era stato prima direttore artistico della RCA, poi direttore artistico della Ricordi, e adesso non è che poteva tornare alla RCA... Nel momento che tornò a Roma, creò l’etichetta Parade con Ennio Morricone e Luis Bacalov. Poi ci furono dei problemi societari, perché c’era un amministratore che fece dei disastri, e mio padre riuscì a tirarsi fuori. Passarono uno o due anni e finalmente fondò la IT nel ’70, che veniva distribuita inizialmente dalla RCA, e creò questa scuola dei cantautori, detta “romana”.
La scoperta di Venditti, De Gregori e Gaetano (che poi era calabrese ma romano d’adozione) è forse il maggior trionfo della IT. Leggendo il libro però ho avuto come la sensazione di un particolare affetto di tuo padre per Francesco De Gregori. Dipende forse dal fatto che De Gregori fu una scommessa vinta da Micocci a dispetto dei santi? All’inizio era considerato “ermetico” e di difficile vendibilità, ma poi si è imposto come uno dei principali artisti italiani di sempre...
E’ vero quello che dici. Fu fatto uscire prima il disco di Antonello Venditti (“L’orso bruno”) e quel giorno tra l’altro alla presentazione del disco De Gregori era talmente dispiaciuto che si mise a rompere tutte le lampadine del teatro, perché aveva un po’ bevicchiato. Però mio padre ce l’aveva sempre lì, De Gregori, perché sapeva che era uno che veramente scriveva in maniera rivoluzionaria, anche se vuoi un po’ difficile in certi casi. Si è detto “ermetico”, ma in realtà non è così: raccontava delle storie. A modo suo, ma le raccontava. Oggi nelle antologie scolastiche, se dovessi mettere dei testi, ci metterei De Gregori oltre che De Andrè. Poi metterei anche Venditti, perché Venditti invece è semplice, accessibile ai ragazzi. Ha fatto dei capolavori pure Venditti. Quindi è vero: c’era questo grande affetto tra mio padre e De Gregori. Fece il disco per secondo dopo Venditti, ma poi comunque Micocci lo considerava un numero uno a tutti gli effetti. Si è visto anche quando andarono con “Alice” al Disco per l’Estate. Mio padre glielo disse a Francesco: “guarda che arriverai ultimo, ma poi comunque questo pezzo lo venderemo perché tutti lo apprezzeranno”. Anche con Rino Gaetano c’era un affetto straordinario. Rino considerava Micocci veramente un secondo padre. Andava da lui nei momenti più difficili, per esempio quando andò alla RCA, fece questo disco in Messico e in Colombia (“Ahi Maria”), e tornò che era veramente sconvolto, per tante ragioni che ti puoi facilmente immaginare. E tornò da mio padre... Tra l’altro, nel libro mio padre paragona la sua vita alla vita di Cristo, anche per l’età in cui più o meno muore, e perché gli piacevano le donne come a Cristo... E comunque era uno buonissimo dentro, che però poi si è trovato in tutta una serie di situazioni. Quindi, i grandi affetti di mio padre: tu te ne sei accorto per De Gregori, l’altro però è Rino.
Vi è piaciuta la recente fiction della Rai su Rino Gaetano?
No, assolutamente no. Ma perché tra l’altro mio padre non è stato sentito. Mio fratello aveva scritto un copione per un altro produttore. Poi invece l’ha fatta Claudia Mori con un altro copione, nonostante che si fosse fatta dare quello di mio fratello. L’ha tenuto due mesi e poi gli l’ha ridato. Insomma, sono successe brutte cose. Ma soprattutto era sbagliata la figura di mio padre. Il nome l’hanno cambiato, ma era quello che stava sempre vicino a Rino, che poi dopo lo porta alla RCA... Era chiaramente Micocci, ma completamente sbagliato. Lì era un impresario che parlava romanaccio, mentre mio padre era un produttore, uno casomai un po’ snob. Hanno voluto fare una figura come se la immaginavano loro. E’ stata anche offensiva come cosa, e completamente sbagliata storicamente. Mentre era molto bravo Claudio Santamaria (che interpretava Rino Gaetano, n.d.a).
Nel periodo della IT, Micocci ha scoperto e lanciato tantissimi artisti: De Gregori, Venditti e Gaetano, e poi, in epoca più recente, Paola Turci, Amedeo Minghi, Sergio Cammariere, eccetera. Oltre ai successi c’è però anche qualche rimpianto per artisti che secondo Micocci valevano ma che non si è riusciti a far decollare?
Una secondo me è Amalia Grè. Se fosse rimasta con mio padre... L’unico pezzo giusto l’ha fatto quando stava con noi “Io cammino di notte da sola”. Quello è stato il suo successo. Dopodiché, in una multinazionale si è persa. Come si sono persi molti. L’altro rimpianto potrebbe essere Gaio Chiocchio, straordinario talento prima come artista con i Pierrot Lunaire, poi come autore di testi: “1950” di Amedeo Minghi (forse uno dei più bei testi mai scritti), “La nostra lingua italiana” per Riccardo Cocciante, se ti vai a rivedere i testi... Gaio è un rimpianto perché poi è morto giovanissimo. Aveva forse questo look, però si è dimostrato anche con Dalla e con altri che poi non è essenziale. Un altro che era bravo era Marco Conidi. Fece quella canzone, “E noi qui” in trio con Bungaro e Di Bella che andò al Festival di Sanremo ed ebbe molto successo. Era un autore bravo che si è un po’ perso quando è andato via dalla IT. Certo, aveva vicino anche Massimo Mastrangelo che è quello che poi ha fatto il successo di Britti. Nel momento che si sono divisi, che hanno litigato, Conidi si è un po’ perso. Ma poi soprattutto si è sentito abbandonato dalla Sony. Perché poi questi, invece di crescere, quando vanno in una grande multinazionale alla fine vengono abbandonati. Lo stesso Rino non è più stato così creativo quando andò alla RCA. Ci andò perché si dovevano investire tanti soldi, si doveva andare al mercato internazionale oltre che la Germania, la Francia, soprattutto il Sudamerica. Però poi si perdevano, non c’era più questo rapporto umano.
Che cosa ne è della IT oggi? Ci sarà ancora, in futuro, la possibilità di vedere dischi contrassegnati dal mitico marchio della famiglia Micocci?
L’etichetta esiste ancora, le edizioni pure. Il problema è che oggi se devo fare qualcosa mi deve piacere tantissimo e devo unirmi ad altre forze. Nel senso che non posso più fare gli investimenti che facevamo per un artista (di centinaia di migliaia di euro) tutti da solo. Per anni siamo andati sempre avanti, poi a un certo punto ci siamo dovuti fermare e dire: un momento, se dobbiamo produrre qualcosa dobbiamo unire le forze, perché non si può continuare a essere tutta la vita dei Mecenate. L’ultima cosa che ho prodotto sono questi Principe e Socio M., napoletani, che andarono a Sanremo nel 2001. Due grandi autori. Lo stesso Bardotti (Sergio Bardotti, storico paroliere per Dalla e tanti altri, n.d.a.), disse: “finalmente torniamo agli autori, a quelli che sanno scrivere le canzoni”. E in effetti questo “Targato NA” se te lo vai a sentire ti accorgerai che pezzo straordinario che era. In questo senso, se c’è una cosa che mi interessa, la porto insieme ad altri partner, magari sempre sull’etichetta IT. Ma non ci sono più state cose eclatanti, anche per l’avvento dei talent show, delle nuove tecnologie, di Internet... Oggi è cambiato tutto. Si fa la compilation di “Amici” e allora i giovani la comprano. Si farà la compilation di “X-factor” e probabilmente qualcuno la comprerà. Non è più così facile per un emergente. Anche perché i canali sono completamente diversi. Oggi non vai più nel negozio di dischi. A meno che non si mettano i dischi nei supermercati, sempre di più, ma anche quelli dei giovani, perché sennò i giovani non ce la fanno. Non soltanto i grandi successi, negli autogrill e nei supermercati. Bisogna cambiare proprio tutta l’impostazione.
Articolo del
04/11/2009 -
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