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Giunge alla dodicesima uscita la bella collana “Tracks” di No Reply, dedicata all’analisi approfondita dei capolavori della musica mondiale secondo l’aureo motto “un libro, un disco”. Stavolta tocca a “Electric Ladyland” dell’augusto Jimi Hendrix, anno domini 1968, quando tutto sembrava possibile.
La cosa curiosa è che l’autore di questo bel libro sul Chitarrista Virtuoso per eccellenza, su Colui che Spinse la Padronanza Tecnica dello Strumento a limiti prima inimmaginabili, è l’ex chitarrista degli Only Ones, punk band che vide la luce nel 1976 in quel di Londra. Evidentemente appagato della carriera in proprio (benché gli Only Ones siano poco o nulla conosciuti da noi, han ricevuto tributi da Replacements, Blur, Nirvana e Libertines; e il buon Perry ha prestato i suoi servigi anche a Sister Of Mercy e Marianne Faithfull; come dire: mica cazzi), l’autore ha fatto il salto della barricata, passando a scrivere saggi, ben accolti nel mondo anglosassone, su “Meaty Beaty Big And Bouncy” degli Who, “Exile On Main St.” (già, il titolo originale ha l’abbreviazione: recuperatevi la copertina) degli Stones e, appunto, “Electric Ladyland” del buon Jimi. Che per di più il nostro, alla tenera età di 14 anni, ha avuto la ventura di vedere più volte dal vivo, al tempo della sua esplosiva calata in Inghilterra. Insomma: uno che ne sa, eccome. E che dove non sapeva ha provveduto a corroborare il tutto con interviste a domande con chiunque avesse avuto a che fare col chitarrista di Seattle, interviste che, secondo la tradizione anglosassone, però non vengono riportate integralmente, estraendone solo il succo e quanto serve strettamente all’analisi. Poco male: ché il libro guadagna in agilità e non perde nulla in documentazione.
Perry vaglia tutto: perfino la strumentazione, di cui elemento essenziale in questo disco fu la possibilità di disporre di un mixer a dodici piste. Cosa che fa di “Electric Ladyland” uno dei primi dischi a essere fondamentalmente prodotti di studio, sulla scia di “Sergeant Pepper’s” e “Pet Sounds”, impossibile da riprodurre esattamente dal vivo (cosa che avrà conseguenze inimmaginabili, allora, sul rock, finendo per far passare in secondo piano la composizione: anche contro questo aspetto del rock, nota Perry, nacque poi il punk). Ma è anche uno dei primi dischi autoprodotti: prima di Hendrix, solo Ray Davies e Sly Stone. Insomma, già due cose per cui “Electric Ladyland” è una pietra miliare.
Ma poi c’è anche la musica: e Perry analizza una per una tutte le composizioni del disco, che, curiosamente, vennero all’epoca archiviate piuttosto frettolosamente da una critica che era singolarmente attardata rispetto ai gusti del pubblico o che liquidò brani dall’arrangiamento piuttosto inusuale del tipo di “1983... (A Merman I Should Turn to Be)” come “il genere di improvvisazione che si può ascoltare in qualunque pub”. Quando invece l’ascolto di demos e alternate takes dimostra che l’arrangiamento era preciso in ogni nota fin dalla composizione sulla chitarra acustica. Ma Perry non si sofferma solo sui brani del disco e la loro accoglienza, piuttosto fredda, da parte della critica d’allora: ci intrattiene anche con l’esame dell’irresistibile ascesa di Hendrix in terra d’Albione, individuandone i fattori, e sulle possibili future conseguenze di “Electric Ladyland” sulla carriera di Hendrix. E qui sfata uno dei più grossi miti: quello dell’eventuale collaborazione con Miles Davis. La testimonianza della moglie di Davis rivela che Hendrix, benché si fosse incontrato diverse volte con il jazzista, non apprezzava granché “Bitches Brew”. Inoltre “Cry Of Love”, l’album postumo, già quasi pronto all’uscita di “Ladyland”, non mostra evoluzioni del suono hendrixiano. Il paragone più adatto per il prosieguo della carriera di Hendrix è allora quello di Dylan. Perché? Beh, compratevi il libro: devo dirvi tutto io?
Articolo del
05/11/2009 -
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