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Primavera 1971: Helga Schneider, accompagnata da suo figlio Renzo, è davanti alla porta della casa viennese di sua madre, che 30 anni prima l’aveva abbandonata per arruolarsi nelle SS di Hitler. Helga è emozionatissima di fronte a quella donna che le somiglia in modo impressionante, ed è disposta ad abbracciarla, a perdonarla e a mettere una pietra sul passato. Ma l’anziana donna inizia subito a raccontarle di quando era stata arrestata da guardiana nel campo di concentramento di Birkenau, e nel suo racconto non c’è pentimento, non ci sono rimorsi. C’è anzi una forte nostalgia per quella divisa delle SS che lei aveva indossato con fierezza e che ora vorrebbe vedere addosso a sua figlia. E’ cosi che Helga se ne va, sconfitta ed addolorata per aver perduto la madre per la seconda volta. Ed è da li che ci porta con il suo racconto in quei 30 anni precedenti, attraverso una testimonianza storica tra le più agghiaccianti, più belle, più commoventi e struggenti che forse siano mai state scritte.
Siamo a Berlino, nel 1941, e la piccola Helga di 4 anni, insieme a suo fratello Peter, di 19 mesi, abbandonati dalla madre e con il padre già al fronte, vivono con la matrigna gli anni della guerra (fino al 1945) sempre nascosti in una cantina del loro palazzo, insieme agli altri inquilini dello stesso. Vivono in quel rifugio, sottoterra, spesso al buio, senza acqua corrente, al freddo, invasi dalle cimici, perché solo là sotto hanno qualche esile speranza di sopravvivenza, mentre fuori la città brucia. E’ una città fantasma, spettrale, dove non si trova più un medico né una ambulanza, una città dove il fiume Sprea trasporta centinaia di cadaveri senza nome e senza volto, una città dove non ci sono gatti, mangiati da una popolazione affamata, ma ci sono topi enormi ovunque perché si nutrono di cadaveri; ci sono corpi squassati, braccia e gambe smembrate appena fuori di quel rifugio. E ci sono le bombe, soprattutto loro, che cadono senza sosta, assordanti, assassine, che colpiscono indistintamente i civili in fila per il pane o le cisterne d’acqua che riforniscono la città. Bombe che sconquassano palazzi, corpi, monumenti, e che lasciano al loro passaggio solo distruzione, morte, odore di carne bruciata, urla di dolore e di disperazione...
Perché recensire e soprattutto consigliare di leggere un libro che racconta di una guerra ormai finita da 65 anni? Cioè di quella seconda guerra mondiale già abbastanza esplorata e già molte volte raccontata? Per diversi motivi: il primo dei quali è l’angolo visuale con cui viene espressa questa testimonianza: stavolta siamo a Berlino, e l’orrore della guerra è raccontato attraverso una bambina che ha entrambi i genitori al fronte, a combattere con l’esercito tedesco nel tentativo di realizzare il grande sogno espansionistico del Fuhrer. Stavolta le violenze subite dagli ebrei ad opera dei nazisti non sono l’aspetto centrale del racconto, sebbene ci siano episodi che ne danno una dimensione crescente ed angosciante; Stavolta quello che viene raccontato è la vita, o meglio la negazione della vita, sotto le bombe, in uno scantinato buio dove ci sono persone civili, comuni cittadini che non hanno scelto né di aggredire né di essere liberati. Ci sono persone che vorrebbero tornare alla luce del sole per tornare a vivere dignitosamente e che invece alla fine, esausti, attendono la capitolazione di Berlino con l’arrivo dei russi. E ci sono loro, appunto, i russi, che da “liberatori” della città non risparmiano nessuno, violentando giovani donne vergini che poi muoiono e umiliando in ogni modo quella popolazione stremata. Il secondo è che purtroppo la guerra continua ad essere argomento di attualità sconcertante. Ed allora, leggendo le atrocità che si sono vissute dagli inermi cittadini berlinesi, non possono non venire in mente le atrocità che stanno subendo gli inermi cittadini afgani o iracheni (tra l’altro presi spesso tra due fuochi: le bombe di coloro che sono lì per liberarli, e le bombe di coloro che si fanno esplodere per cacciare gli invasori), o di quelli di qualsiasi altro focolaio di guerra che è sparso oggi nel mondo. Perché in qualsiasi guerra, dobbiamo sempre ricordarlo, i cittadini inermi non sono né buoni né cattivi, ma sono solo vittime innocenti che pagano prezzi altissimi per poste in gioco che non appartengono a loro neanche in caso di vittoria. Infine perché, come tutte le testimonianze di una guerra vissuta, và mantenuta la memoria storica, che speriamo sempre possa servire alle generazioni successive per non commettere gli stessi errori del passato. Anche se, purtroppo, la storia ci insegna che questa continua ad essere una pura illusione.
Articolo del
11/01/2010 -
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