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Jula De Palma è un nome che non dice molto a chi ha meno di 60 anni, e probabilmente nulla a chi si aggira sui 20-30. Male. Perché è sicuramente stata la nostra “signora in jazz”: nostra, certo, e quindi dalla vita – per fortuna e grazie a Dio! – meno travagliata, ma segnata comunque da difficoltà professionali di un certo peso, in un’Italia che al jazz e alle musiche anglosassoni in genere non voleva proprio arrendersi, per tutti gli anni ’50, perlomeno.
Ed ecco un primo perché del fatto che il suo nome non sia nella memoria collettiva come altri: resistenze a farle interpretare brani jazz, difficoltà a farla passare in Rai come altri, più protetti nomi, ai tempi in cui la Rai era l’unico canale radiotelevisivo, addirittura un Sanremo scippato, ché canzoni allegre non potevano vincerlo. E poi c’è un secondo perché, che questo bel libro – l’ennesimo, come al solito, della Coniglio Editore – mette in luce: la cialtroneria davvero poco lungimirante dei discografici. E questa è una piccola sorpresa, ché siamo abituati a immaginarci l’industria discografica di un tempo come più accorta, intelligente e lungimirante di quella dei nostri giorni. Invece non era così: pare di vedere una commedia all’italiana, con quel gusto agrodolce che delinea ritratti di truffatori di piccolo cabotaggio, così Italiani, delle cui truffe non si riesce a immaginare neanche il perché: perché infatti promettere mari e monti per avere la De Palma nel proprio roster, un’artista baciata da un costante affetto dei fans nei live (incredibili i racconti sulla frenetica attività dal vivo, a livello mondiale, di questa brava cantante del passato) e quindi con una grande potenzialità commerciale, e poi nemmeno distribuirne i dischi e, se sì, senza alcuna promozione pubblicitaria? In questa bella autobiografia, che è un bel libro tout court, scritto bene, narrativamente efficace, piacevole anche per chi non conosce particolarmente la De Palma, perché riesce a ritrarre mondi ed epoche perdute restituendone i colori, gli odori, i sapori, Jula racconta anche di avances sessuali rifiutate da parte di dirigenti discografici, che iniziarono a boicottarla, di inspiegabili avversità di alcuni dirigenti Rai, di retroscena non proprio edificanti nei rapporti tra colleghi, sempre con grande garbo: quando il peccato si fa troppo grosso, si tace il peccatore. È comunque, questa, non è l’autobiografia di una star, ma di una persona. Bellissime le prime pagine, dedicate agli anni della guerra, quando Jula è ancora una bimba in fuga dall’Africa Orientale Italiana, una sfollata prima in Romagna e poi a Milano col papà prigioniero degli Inglesi; mai noiose le pagine dedicate alla vita privata, col racconto dei flirt e del grande amore, dell’attesa della figlia, della perdita dei genitori, dei furti subiti, delle minacce di rapimento, che a metà degli anni 70, la convincono a tener fede alla promessa fatta a se stessa nel lontano 1949, anno in cui iniziò la propria carriera: e cioè di smettere al venticinquesimo anno. E così fece, in sordina, senza annunci di nessun genere, cambiando pure Paese: prima la Gran Bretagna, poi il Canada.
Un bel libro, ripeto per la terza volta: un bel ritratto di una persona davvero bella, in possesso di una delicatezza d’animo, anch’essa, forse – ahimé – d’altri tempi. Ma che per il tempo della lettura possiamo fare (anche) nostra.
Articolo del
26/01/2010 -
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