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È una bella prova d’esordio, La comparsa di Davide Marchioni, romanzo che ai disattenti può parere l’ennesimo racconto di formazione. Invece no. C’è di più e di meglio.
Certo, si narra delle difficoltà del protagonista Antonio De Luca, trentaduenne laureato fuori corso, a inserirsi nel mondo del lavoro. Ma non perché non lo trovi: anzi, si becca pure un impiego ben pagato in una grande azienda di comunicazioni. Quello che proprio non gli va giù e non riesce ad accettare, però, è la competitività, sia tra colleghi d’ufficio, sia tra aziende, per cose verso cui non prova il minimo interesse. Soddisfazioni non ne trova neppure nei rapporti con l’altro sesso: il suo massimo desiderio è stabilire un rapporto profondo e duraturo con una ragazza che gli sia affine interiormente (viene in mente il già mitico “Vieni a vivere come me” di Dente), ma riesce sempre a farsi mollare. E sì che le occasioni – di livello in ogni senso - non gli mancano: e riesce pure a sfruttarle bene, fino a un certo momento. E neanche con gli amici di un tempo le cose vanno bene: la nuova vita lavorativa gli fa sentire distanti sia gli ex adorabili perdigiorno del bar e il desiderio di non integrarsi lo separa da quelli che han messo su famiglia. Si trascina in un sentimento di inautenticità della vita che si fa via via più opprimente, orfano delle certezze che sostenevano le generazioni passate: e la morte del nonno, ex professore ed ex partigiano ne è un po’ il simbolo. Alla fine, Antonio vive nei suoi sogni, nei film che adora, di cui cita le battute, nei libri che legge in metrò andando e tornando al lavoro, nelle lettere di una ragazza cubana trovate per caso in un parco e che scandiscono il procedere del romanzo. E proprio lei finisce per costituire l’alter ego di Antonio: come lui proiettata in una realtà in cui non si trova bene perché percepita come fredda e inautentica, sbeffeggiata dai suoi stessi connazionali trapiantati a Roma per le sue nostalgie della madrepatria e della vita semplice e povera che si conduce laggiù. Solo che lei ha un posto dove tornare, anche se la sua efficacia nel curare il male di vivere dev’essere tutta dimostrata, viste le critiche di cui sopra. Antonio no: vive nell’adorazione di miti del passato che per lui rappresentano l’autenticità, quella che non riesce a trovare nella sua vita odierna, finendo per sentirsi sotto assedio, come la Leningrado dell’ultimo film, mai realizzato, dell’adorato Sergio Leone. Alla fine, dalla descrizione di questo male di vivere di primonovecentesca memoria quello che esce non è un ritratto generazionale, ma esistenziale: Antonio De Luca non è altro che l’inetto che ha lunga tradizione nella letteratura italiana degli ultimi cento anni: Svevo, Moravia, Tozzi, Borgese. Come i loro personaggi, Antonio si crede grande di una grandezza latente, ma poi è totalmente incapace di capire quello di importante e vero che sta succedendo intorno a lui: percepisce solo l’inautentico e fugge dalla possibilità del calore vero, perché andargli incontro significherebbe iniziare a giocare la partita e quindi inquadrarsi in un ruolo. Le tragicomiche avventure del finale non fanno altro che ribadire questo concetto e forse, nelle ultime righe, fanno intravedere un destino diverso per Antonio: ma ovviamente non scelto, bensì subìto.
Bel romanzo, nonostante qualche incertezza nei dialoghi, in possesso del dono di spronare il lettore ad andare avanti per vedere che succede. Consigliato a tutti.
Articolo del
18/02/2010 -
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