«I's up this mornin', ah, blues walkin' like a man; I's up this mornin', ah, blues walkin' like a man; worried blues give me your right hand», cantava un tormentato Robert Johnson in uno dei brani, Preachin' Blues per l'esattezza, impressi su nastro in una stanza del Gunter Hotel di San Antonio, nella sua seconda, leggendaria seduta di registrazione, datata 27 novembre 1936. Afflizione bluesy che sembra oggi pervadere anche il, già tormentato, animo di Steve Earle, tanto da spingerlo a dare alle stampe l'odierno ”Terraplane”, quasi a voler, in tal modo, esorcizzare i propri personali “blue devils”. Con un titolo mutuato, come già avvenuto per lo stesso Johnson (vedasi l'autografa Terraplane Blues incisa anch'essa presso il medesimo hotel texano, seppur in una seduta di registrazione di quattro giorni antecedente quella poc'anzi menzionata, ndr), da un modello automobilistico prodotto dalla Hudson Motor Company, il nuovo parto discografico del songwriter texano può essere altresì letto come un sentito omaggio al blues stesso. Composto per un terzo, durante il proprio, recente solo tour europeo, “Terraplane” è stato infine registrato, sotto la supervisione di R.S. Fields e Ray Kennedy, in quel di Nashville, presso gli House of Blues Studios, avvalendosi del prezioso contributo strumentale dei fidi Dukes, ovvero la dirompente sezione ritmica formata dalla batteria di Will Rigby e dal basso di Kelly Looney, la sferzante chitarra elettrica di Chris Masterson e il violino, della di lui moglie, Eleanor Whitemore.
Undici le composizioni approntate da Earle per l'occasione, ad abbracciare, secondo una personale visione della materia sonora in esame, le differenti accezioni territoriali e stilistiche da sempre tratto peculiare del blues medesimo. Si passa pertanto, geograficamente, dal Lone Star State, con il torrido Texas blues marchiato Sam “Lightining” Hopkins dell'iniziale Baby Baby Baby (Baby), resa ancor più rutilante dal grasso soffiare di un'armonica distorta, e della sincopata The Usual Time, alle paludi della Louisiana, finendo invischiati nel putrido swampy sound di You're The Best Lover That I Ever Had e di una pervicace Go Go Boots Are Back, entrambe parenti illegittime delle stagnanti ipnosi sonore di Tony Joe White. Reiterare ipnotico che ritroviamo nello spiritato sproloquiare di The Tennessee Kid, che non avrebbe sfigurato tra i solchi di Hooker'n'Heat, mirabile incontro tra l'ossessivo battere percussivo hookeriano e il nerboruto boogie dei Canned Heat di Henry Vestine. Non mancano tuttavia episodi figli di più scarnificati arrangiamenti acustici, come la swingata Ain't Nobody's Daddy Now, o l'erratico vagabondare country blues di Gamblin' Blues, mentre ben riconoscibile è la firma rootsy della penna del nostro tanto in una Baby's Just As Mean As Me, in duetto con Eleanor Whitemore, quasi una outtake della precedente release The Low Highway, con, sullo sfondo, l'ombra dell'amato Hank Williams a sporcarne di “bianco” i pentagrammi, o il febbricitante dimenarsi di un'epilettica Acquainted With The Wind, entrambe assimilabili ai canoni della “classica” produzione earliana, più che alla “negritudine” pervadente le altre tracce qui contenute. Blues tuttavia che torna protagonista prima con la slow ballad, dai sudisti echi staxiani, Better Off Alone, e infine con la conclusiva King Of Blues, martoriato shuffle dalla torrenziale furia elettrica.
Un legame quello tra il barbuto texano e il blues che ha radici lontane e profonde, ed oggi trova finalmente viva testimonianza discografica con un lavoro, “Terraplane”, dalla penetrante, ruvida bellezza, alla cui realizzazione egli pensava da tempo, come peraltro ribadito nelle stesse liner notes; «For my part, I've only ever believed two things about the blues; one, that they are very democratic, the commonest of human experience, perhaps the only thing that we all truly share and two, that one day, when it was time, I would make this record».
Articolo del
17/02/2015 -
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