«Old stories for modern times», recava ben stampigliato in copertina la precedente release, di coppia, firmata Veronica Sbergia e Max De Bernardi, quasi a voler descrivere, fin dal titolo ed in modo più che esaustivo, quanto contenuto tra i propri solchi. Storie antiche, per l'appunto, tra tribolazioni, sofferenze, patemi amorosi e disastri naturali, economici e sociali, dalle origini incerte, perse tra i meandri più oscuri del tempo. Storie tramandate oralmente fino ai giorni nostri, di generazione in generazione, spesso con l'accompagnamento di uno scalcinato strumento a corde o di una vetusta quanto improbabile percussione, e figlie dirette della cultura afroamericana. Un patrimonio culturale al quale Veronica Sbergia e i suoi Red Wine Serenaders si sono sempre accostati con profondo rispetto, sin dal loro omonimo esordio, passando per il “collettivista” D.O.C., fino all'opera a due poc'anzi citata, facendo propri vecchi tradizionali, d'ascendenza nera e bianca, mostrando non solo una notevole conoscenza di una materia sonora “straniera”, quanto al contempo ragguardevoli abilità tecniche ed interpretative. Un percorso non scevro di riconoscimenti e soddisfazioni, tanto che i nostri hanno più volte attraversato, con i propri strumenti al seguito, l'Oceano, quasi a voler “riportare a casa” una musica indissolubilmente legata al territorio statunitense. Un legame, quello con il suolo americano, oggi ancor più saldo, visto che la loro ultima fatica discografica ha visto la luce, in parte proprio aldilà del medesimo Oceano Atlantico. Frutto di una proficua raccolta fonti, tramite Musicraiser, ”The Mexican Dress” è stato infatti posto su nastro in quel di Seattle, per poi essere completato presso i nostrani studi SuonoVivo.
Risultato di queste registrazioni “transatlantiche” è uno dei lavori più maturi e riusciti tra quelli pubblicati fino ad oggi dai nostri, in un nuovo, atemporale viaggio in musica tra ragtime, folk, pre-war blues, early jazz, spiritual e inedite reminiscenze irish, nell'America di inizio Novecento. Se Veronica Sbergia si conferma, una volta di più, quale frontwoman dalla comprovata, ammaliante bravura, non da meno sono i suoi due “compagni” ovvero Max De Bernardi (suo compagno, per davvero, nella vita), alle corde più diverse e Dario Polerani al contrabbasso, pressoché fondamentali nel costruire arcaiche trame acustiche, alle quali contribuiscono, in aggiunta, gli apporti strumentali di alcuni, selezionati, ospiti, tra i quali spicca, per peso specifico, Denny Hall. E se abbiamo già decantato le lodi delle abilità interpretative dell'italico trio, in “The Mexican Dress”, trovano sfogo, per la prima volta, anche inediti sbocchi autoriali, concretizzatisi in alcuni, riusciti, episodi autografi, quali la title track, delizioso, movimentato swing, ideale per “scacciare i blues danzando”, o la strascicata folk ballad Crying Time, con la seducente voce della Sbergia a conquistare anima e cuore degli ascoltatori. De Bernardi, uno dei pochi “pizzicatori” di corde nostrani per il quale l'appellativo di virtuoso è quantomai calzante, dal canto suo pone la propria firma sul solitario strumentale The Resurrection Of The Honey Badger, con il bottleneck, nel suo metallico scivolare, ad omaggiare il leggendario Blind Blake, quanto a ricordare il più ispirato, e tradizionalista, Ryland Cooder.
Omaggio, quello a figure mai dimenticate dell'epopea musicale afroamericana, che coinvolge anche Victoria Spivey, della quale viene ripresa Dope Head Blues, supplichevole blues datato 1927, e Bo Carter, in una Banana In Your Fruitbasket affidata alla ruvida voce di De Bernardi, passando per la riproposizione, in una versione a dir poco corale, del tradizionale Paul And Silas, il cui arrangiamento chitarristico, di stampo ragtime, vuole invece celebrare l'opera del mai dimenticato “Reverendo” Gary Davis. Degni di menzione sono anche i brani portati in dote dalla penna del summenzionato Hall, in particolare la splendida Curse The Day, dove si respira l'aria della verde Irlanda, complice anche il mantico comprimersi di una uillean pipes, ad aprire nuovi sentieri verso, prima mai battuti, territori sonori, e sicuramente, visti i risultati qui ottenuti, da esplorare nuovamente in futuro. Chiude l'album una ghost track d'eccezione, Baby Please Loan Me Your Heart, sconosciuto brano del banjoista Papa Charlie Jackson, nel quale De Bernardi imbraccia, sulle orme di quest'ultimo, un banjo a sei corde, duettando magistralmente con il clarinetto di Joel Teep. Un “vestito messicano” quello intessuto, con cura, da musicisti sì nostrani ma dalla caratura internazionale, le cui tonalità d'antan non solo non temono l'inesorabile trascorrere del tempo, ma altresì, grazie al loro cangiante patchwork cromatico-musicale paiono essere adatte per tutte le stagioni, presenti e future.
Articolo del
04/03/2015 -
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